domenica 13 maggio 2012

Giovani compositori a teatro: Francesco Leineri



Ci sono ambiti in cui la musica difficilmente può prescindere dal contatto diretto dell' ascoltatore con l' artista, esibizioni dal vivo alternative ai concerti. E' la musica che sbarca in teatro, che con esso si mescola, in cui può rientrare una parte recitata. C' è chi sul palco ci sale per fare qualcosa di diverso dal solito, per sperimentare ,ovvero andare alla ricerca dei propri limiti e, una volta individuati, cercare di fare un passettino oltre. A portare in scena le proprie idee lunedì 30 Aprile presso il Teatro Studio Uno di Roma è stato Francesco Leineri, giovane musicista dalle origini palermitane oggi trasferitosi nella Capitale studente al conservatorio di Santa Cecilia. Quello che porta in scena è uno spettacolo dallo svolgimento lineare, il racconto della nascita, crescita e morte di un ascoltatore, di come egli si rapporta nella sua vita con la musica e con il rumore e della relazione che c' è tra queste due manifestazioni del suono. Il suo decoupage (come ama chiamarlo) è figlio delle grandi rivoluzioni della musica degli anni zero, di barriere che cadono, di limiti oltrepassati, di piani espressivi che si influenzano e si confondono a vicenda. Non solo non esistono più differenze tra musica classica, rock, ambient ed elettronica, non solo i diversi generi si mescolano tra loro fino a perdere la propria connotazione distintiva ma i suoni che stanno sullo sfondo, creati attraverso strumentazioni elettroniche possono a tratti diventare i veri protagonisti. Il melange di suoni che ne viene fuori parla di noi, del nostro approccio al suono e all' ascolto. Sebbene il suo tour inizierà ad Ottobre in occasione della prima ho avuto il piacere di fare due chiacchiere con lui.


Fabrizio:
Francesco, la prima cosa che ho notato in sala è stata la reazione molto diversa da parte di ogni spettatore a quello che accadeva sul palco, te lo aspettavi?
Francesco Leineri:
Beh, questa era una prima: di per sé il debutto è sempre un momento molto difficile, non sai mai come andrà o quali potrebbero essere le tue reazioni o quelle di chi ti ascolta. In passato (in particolar modo al debutto di “Tirez sur le pianiste”) la prima non ha quasi mai avuto un totale buon riscontro da parte del pubblico: nel caso di Brusìo io stesso sono stato sorpreso dal buon riscontro della sala, dal fatto che ogni spettatore a suo modo abbia reagito sempre in maniera del tutto estremamente intima e personale. Mi ha fatto piacere anche perché ho riscontrato apprezzamenti nei confronti della “confezione” dell' esibizione: penso sempre alla reazione dell' ascoltatore, faccio attenzione alla durata, alla modalità nella quale mi esprimo, al fatto che ci sia un filo ben preciso da seguire e ad altri aspetti correlati. Avere ricevuto apprezzamenti proprio su questi aspetti è una cosa che mi ha riempito di gioia e mi ha fatto capire che forse il lavoro e i sacrifici non sono stati vani.
Fabrizio:
Nel “decoupage” che hai portato in scena c' è un rapporto molto stretto tra musica e rumore, non a caso s' intitola “Brusio”. C' è un confine tra musica, suono e rumore?
Francesco:
E' molto difficile da individuare, per me. In scena ho cercato di interrogarmi proprio su questo, ma è una domanda che per il momento non ha risposta e che per l’appunto io stesso ho scelto di lasciare aperta. Mi piacerebbe che ognuno, ad esibizione conclusa, potesse trovare la propria risposta dentro di sé.

Fabrizio:
Se è difficile districarsi tra questi concetti apparentemente molto distinti e distanti tra loro a maggior ragione cadono le barriere tra i generi. Sbaglio?
Francesco:
Assolutamente, i generi – o meglio, le etichette - non esistono, quando si tratta di catalogazioni perverse. In Brusìo c’è il filo rosso dei miei pezzi per pianoforte, che però mi permette di passare da suonare un pezzo di Eno (By this river, n.d.r) ad improvvisare profanamente su musiche di Ligeti o incisi di Bach. L' eccessiva settorializzazione probabilmente è stata alla base del disinnamoramento del pubblico verso alcuni generi. La musica classica, purtroppo, non poteva che rimetterci.

Fabrizio:
Già, la classica, devo dire che mi fa una certa impressione vedere come le date più importanti e più numerose di molti teatri riguardino musica dell' 800. Non sarebbe necessario valorizzare qualcosa di nuovo?
Francesco:
Le musiche dei grandi compositori del passato sono importantissime, è studiando quelle che si può affinare al meglio il proprio potere sulla partitura e acuire un maggior senso critico: è a mio modesto parere la migliore scuola che oggi si possa desiderare. D' altro canto, al tempo stesso, è necessario fare musica del terzo millennio per ascoltatori del terzo millennio. Il problema è capire quale sia. Di certo l’ultima cosa da fare è paralizzarsi, come qualche collega compositore che scrive pochissimo. Sarà timore nei confronti dei giganti del passato? Come forse è da evitare il rischio per il quale si arrivi al “successo” scrivendo composizioni eleganti ma prive di carattere e senza idee? La tentazione di ripetere vecchi schemi del passato in molti casi può essere fortissima, ma per scrivere qualcosa di nuovo bisogna mettersi in gioco fino in fondo, soprattutto con amore e sincerità, senza pensare al compiacere necessariamente chi ci ascolta.

Fabrizio:
Ma prima hai detto che all' ascoltatore ci pensi eccome!
Francesco:
Sono due piani distinti. Quando compongo non penso ad altro se non a cercare di esprimere me stesso con tutta la sincerità possibile, al meglio che posso: è questa la mia più grande prerogativa. Quando poi penso al confezionamento dell' opera, all' impacchettamento, alla distribuzione, allora mi preoccupo soprattutto di chi ascolta, ma il contenuto quasi sempre non si tocca.

Fabrizio:
Credo che per non riciclare schemi del passato bisogna conoscere la musica che ci circonda. Quali sono i dischi di musica leggera degli ultimi dieci anni che ti hanno influenzato o che ti sono piaciuti?
Francesco:
Ma mi fai un sacco di domande difficilissime! Oddio…mi è piaciuto un sacco l’ultimo di Tom Waits. O l’ultimo degli Air. Ultimamente mi sono divertito anche ad ascoltare molti di quegli autori, quasi tutti giovanissimi, di questa scena che la critica ama definire “neoclassica”: Nils Frahm, Peter Broderick, Dustin ‘O Halloran. Fra gli ultimi dischi per pianoforte usciti da poco che mi hanno influenzato parecchio c’è lo splendido ultimo lavoro live di Keith Jarrett, inciso a Rio, l’ultimo Craig Taborn, o Vijay Iyer. Andando un po’ più indietro nel tempo un capolavoro assoluto che mi ha paralizzato all’ascolto è il testamento-live ad Amburgo del trio di Svensson, o Leucocyte stesso. L’ultimo di Bugge Wesseltoft. Includo nella lista anche il 90% delle produzioni nel catalogo della ECM. Purtroppo riesco ad ascoltare con poca convinzione i cantautori della nuova scena italiana, eccezion fatta per Nicolò Carnesi e Giovanni Block. Ma questa è un’altra storia. Insomma, potremmo parlare per ore…

Fabrizio:
Ultima domanda, i tuoi progetti per il futuro.
Francesco:
Scrivere, scrivere, scrivere. Parafrasando Stravinskij, l’unico dovere che abbiamo nei confronti della musica è quello di inventarla. 
La pièce teatrale “Petit”, con le mie musiche originali per pianoforte, clarinetto, violoncello e contrabbasso, è andata in scena recentissimamente al Teatro Trastevere di Roma. L’eccezionale duo di Domenco Turi al pianoforte e Massimo Munari al clarinetto ha deciso di interpretare un mio pezzo per un concerto alla Basilica di Santa Cecilia di Roma che si è tenuto proprio ieri. Ho un progetto in cantiere con l’attore Giuseppe Mortelliti del quale preferisco non parlare, per il momento…ce ne saranno delle belle. Continuerò a collaborare con altri musicisti, ma nell’imminente mi impegnerò perlopiù a comporre.





Fabrizio Romano

giovedì 29 marzo 2012

Le mutazioni del jazz: Portico Quartet - Portico Quartet (2012)



A volte i suoni e gli umori di un disco che si ascolta cominciano a svelarsi già dall' etichetta che lo produce. L' omonimo terzo album dei Portorico Quartet esce per la Real World, di proprietà del signor Peter Gabriel. Si potrebbe cominciare a pensare a molteplici influenze di estrazioni diverse e distanti tra loro, ad una grande attenzione per le culture non occidentali, al tentativo disperato di far suonare qualcosa nuovo come unico modo per riscoprire sensazioni ed umori primordiali, profondi, nascosti. Ecco,  non si sarebbe di certo sulla cattiva strada.
Se fino ad Isla (2009) la band londinese ricercava nella musica elettronica l' escamotage per superare il loro impianto classicamente jazz, con questo loro ultimo lavoro la fusione è completa, l' avvicinamento all' ambient deciso, l' approdo a sonorità inesplorate compiuto.
Uno dei principali errori che si può fare ascoltando un disco del genere è catalogarlo rigidamente in un genere. Cos' è, post-rock sperimentale? Nu-chamber-jazz elettronico? O forse è meglio minimal-ambient? E' una catalogazione piuttosto sterile non tanto perché una volta che ci siamo messi d' accordo sulla collocazione stilistica non abbiamo aggiunto niente, quanto perché è un lavoro fondamentalmente libero ed aperto a tutte le influenze possibili. A volte dall' anarchia intellettuale però possono derivare dischi confusi, barocchi, leggermente stucchevoli. Non è quel che accade in Portico Quartet. Certo il tema dei brani si dissolve lasciando spazio a loop e soluzioni di respiro ambient/avanguardistico (penso all' ottimo Tim Hecker), gli assoli e l' improvvisazione sono ridotti all' osso e non risalta alcuna particolare capacità tecnica. Ma se la tecnica non è niente di più che un' arma che serve semplicemente a sviluppare le proprie idee (“Technique is a weapon to do whatever must be done” Cecil Taylor) allora possiamo pensare ad un nuovo modo di concepire il mondo che gira intorno al jazz. Non è più l' improvvisazione sulla tecnica a fare la differenza, ma semplicemente la forza con cui ci si esprime. Ed è difficile non rimanere affascinati dalla grande complessità e varietà delle armonie, non essere toccati dall' eleganza e dalla misura compositiva, non sognare ad occhi aperti sprofondando nel susseguirsi di ripetizioni e sovraincisioni che sembrano non avere mai fine
Più che una ricerca introspettiva questo album ci prende per mano e ci conduce verso mondi e paesaggi costruiti, dipinti ed architettati dal quartetto. Costruzioni a dir la verità splendide ed eteree quanto fragili ed illusorie, destinate a scomporsi e cadere travolte da tensioni rumoristiche e scomposizioni sonore. Forse una presa di coscienza del fatto che la musica fatica ad essere lo specchio o anche più semplicemente la rappresentazione della realtà, e che la sua missione in questo senso è destinata a fallire, perché come diceva uno che di belle storie se ne intendeva come Fabrizio De André < Io tutte le sere, quando finisco il concerto, desidererei rivolgermi alla gente e dire loro "tutto quello che avete visto è assolutamente falso">. 
Libero, fluido, toccate, elettronico, aperto. Di dischi come questo se ne sente sempre il bisogno: il jazz riveduto e corretto ai tempi della terza olimpiade londinese.
 Lo diamo un voto? Va bene: 8





Fabrizio Romano


martedì 7 febbraio 2012

Le canzoni che migliorano la vita: Sufjan Stevens - All delighted people




Qual è il modo ideale di iniziare una preghiera? Una preghiera è la voce del singolo che affronta un viaggio per arrivare fino alla divinità. Per poter giungere a destinazione deve poggiare sulle esperienze personali e che riguardano l' interazione con gli altri, una voce che in qualche modo rappresenti la richiesta di più persone. Il miglior modo di iniziare una preghiera è renderla universale, è chiedere non solo la felicità propria, ma anche quella degli altri; (all delighted people) “Tutte le persone felici”. Se la propria voce diventa quella di tanti il proprio canto diventa un coro.

Una preghiera è un modo per provare a vedere chiaro in quel che si distingue appena (“Tomorrow you'll see Thought”) tra le paure e le fragili insicurezze della vita (“The clouded out disguises and the grave”, “And I took you by the sleeve / No other reason than to be leading your leading man”). Unico spunto, unica forza motrice che ci persuade ad affrontare le difficoltà è la speranza. Speranza che ci sia qualcosa di “altro” rispetto alla nostra immediata percezione, di più alto della nostra materialità e tendere le mani verso essa “All delighted people raise their hands”. A pensarci bene non è poi cosi strano che Sufjan Stevens per sentire più vicina a sé qualcosa che non si vede, non si tocca, non si odora, usi proprio la musica, arte e prodotto che non ha nessuna di queste proprietà, ma che al limite si “sente”.

La melodia è molto semplice, per niente strutturata, il ritmo estremamente lento, come se fosse una marcia che scandisce il tempo di un cammino. E sembra proprio che il percorso debba proseguire senza momenti turbolenti, ravvivato solo a tratti da inserti di cori, piano, violini, synth e fiati che si susseguono in modo imprevedibile. D' un tratto a 2:35 il climax inaspettato sul verso “I' m not easly confused”, li dove Sufjan rivendica la complessità della sua ricerca spirituale. Tutto ciò che prima era inserto in un tappeto sonoro monotono, ora diventa trama a tutti gli effetti. Allora parte elettronica, cori, fiati, archi e persino la voce di Stevens sono funzionali al crescendo. Già a 3:30 si ritorna alla melodia originale, i pochi accordi di chitarra ora risaltano più nitidamente nel momento più delicato del pezzo. Un momento di intimità e debolezza (“And the people bowed and prayed / And what difference does it make?”) che porta al dissolvimento di ogni struttura musicale e di ogni possibilità di comunicazione sulla parola “odio” (“The world surrounds us with its hate”): il demone da cui liberarsi, l' ostacolo da scavalcare per continuare la propria ricerca.

La canzone potrebbe finire qui, invece riprende la struttura iniziale, stavolta però a metà del percorso compiuto da Stevens, abbracciando ormai le proprie insicurezze, le proprie paure “Hello darkness, my old friend it breakes my heart”. Il coro non si dissolve più in un afflato rumoristico ma svanisce pian piano a 8:15 in un pizzicato di archi che si manifesta in tutta la sua leggerezza. E' nella leggerezza che la preghiera si risolve. Che importa se il mondo è un disastro? “And what difference does it make / If the world is a mess” l' unico modo per salvarsi è amare dal profondo del cuore “Oh! I love you a lot; Oh! I love you from the top of my heart” per permettere alle persone amate di scavare nella nostra parte più intima e vulnerabile: attraverso i nostri errori “you can see through my mistakes”. Spicca il fatto che l' amore non provenga dal profondo del cuore (bottom), bensì dalla sua superfice (top), quasi a volerne rimarcare la sua parte più nobile, sottolineare che i sentimenti che debbono prevalere sono i più puri ed a rimarcare un senso di ascesa verso l' alto che è un liet motiv fondante di tutto il brano.

Seppure questi gloriosi 11 minuti e 38 secondi danno adito ad interpretazioni nichiliste che segnerebbero una svolta nella poetica del cantautore americano, da sempre molto legato a temi cristiani, sancendo la fine della possibilità di rivolgersi ad un entità superiore, lo stesso Stevens ha affermato che la sua fede protestante col tempo è rimasta solida. Al contrario, a parere di chi scrive, ancora una volta Sufjan Stevens si fa cantautore dei buoni sentimenti della professione di amore nei confronti della vita come unica via per non lasciarsi morire “Suffer not the child among you or shall you die young when the world's come and gone”. Se le religioni sono la più grande psicanalisi di massa mai concepita dall' essere umano all deligthed people è la miglior parte musicale di questa terapia e c' è di certo che usciti dalla seduta ci si sente molto meglio.


Fabrizio Romano



Sufjan Stevens

mercoledì 18 gennaio 2012

Sono Solo Canzonette intervista Teho Teardo.


La copertina di Music, film. Music



Sulla nostra pagina Facebook, tra i likes di alcuni post spesso fa capolino il nome di Teho Teardo, compositore friulano da lungo tempo residente a Roma. Si tratta di uno dei musicisti d'avanguardia più attivi sul suolo italiano, alfiere della lunga e consolidata tradizione di autori di musica da film il quale, dopo gli esordi industrial, ha messo la sua vena compositiva al servizio del cinema d'autore, al cui interno spicca la collaborazione con Paolo Sorrentino, e della televisione.

Pochi giorni fa, infatti, il 13 gennaio per l'esattezza, è stato pubblicato il videoclip ufficiale di Stanotte cosa succederà, singolo estratto dall'ultimo disco di Teardo, Music, film. Music, uscito a novembre e ascoltabile qui, con la partecipazione di Elio Germano. Abbiamo, allora, chiesto a Teho di fare due chiacchiere via Skype. Come potrete constatare leggendo le prossime righe, abbiamo affrontato molteplici temi nel corso dell'intervista, passando in rassegna numerosi aspetti della carriera e della vita di un artista concretamente contemporaneo.

Andrea
Ciao Teho, innanzitutto ti ringraziamo per la disponibilità. Vorrei iniziare questa conversazione chiedendoti qualcosa sul singolo cui presta la voce Elio Germano, Stanotte cosa succederà. Dicci un po' come è nata questa collaborazione.

Teho Teardo
Questa canzone l'avevamo scritta io ed Elio con Daniele Vicari per il film Il passato è una terra straniera, ma poi l'ho completamente riscritta e stravolta fino ad ottenere quanto hai sentito ora.

Andrea
Mi incuriosisce molto la scelta del cantato, che vira decisamente in direzione del rap. Qualcuno di voi ha un particolare legame con quel genere?

Teho Teardo
Sì, Elio ha un gruppo hip hop, le Bestie Rare. La scelta è partita dal film ma poi è diventata altro, ad ogni modo ci piaceva l'idea che la voce della canzone fosse una delle voci degli attori in esso presenti.

Fabrizio
Teho, vorrei focalizzarmi ora su alcuni aspetti che mi hanno molto colpito. Il primo riguarda il passaggio dai tuoi esordi industrial a questo nuovo stile difficile da definire ma che io trovo più, per così dire, personale. Come l'hai concepito?

Teho Teardo
Ho iniziato a suonare e pubblicare dischi da ragazzino quando avevo 17 anni. Il contesto era quello industrial e quindi non mi apparteneva, era solamente qualcosa cui facevo riferimento. Il percorso che ho fatto nel tempo era rivolto a creare qualcosa di mio, che fosse riferibile a me: non mi interessa suonare la musica degli altri, voglio scrivere e suonare la mia.

Fabrizio
In questo nuovo contesto in cui scrivi colonne sonore, come vivi il fatto di scrivere musica per episodi, adattandola ad immagini e dialoghi? E' un limite o uno stimolo?

Teho Teardo
Guarda, in realtà non scrivo colonne sonore nel senso canonico del termine. Scrivo musica e questa trova un parallelo con la drammaturgia del film. Non faccio musica da commento ma cerco una via sonora che leghi immagini e musica fino a quando riesco a chiamare film ciò che sento e vedo.

Andrea
Una cosa molto interessante, Teho, è stato il passaggio dal grande al piccolo schermo: Il segreto dell'acqua è stato trasmesso sulla rete nazionale.

Teho Teardo
Eh, ti interrompo. Ho appena visto nel tuo sito che tra i vari album c'è NAIL di Foetus.

Andrea
Se vuoi dirci qualcosa a proposito di quel disco, siamo tutt'orecchi.

Teho Teardo
Thirlwell è straordinario. Jim ed io ci conosciamo da molto, di recente abbiamo pubblicato un 7": Santarcangelo. Me lo ricordo a Londra, quando faceva NAIL. Io ero un bimbo, guardavo dal vetro e cercavo di capire cosa facessero. Avevo incontrato lui e Steven Stapleton dei Nurse With Wound, che mi aveva aiutato a registrare il mio primo lp, Caught from Behind. Ma, stavi dicendo?

Andrea
Hai fatto bene ad interrompere, sono dettagli sicuramente interessanti. Mi preme sapere se questo passaggio dal grande al piccolo schermo abbia comportato un cambio nell'approccio, nello stile compositivo.

Teho Teardo
No, non mi piace pensare alla musica per categorie, né mi interessano i generi in sé. Ciò che mi interessa è la musica e credo debba avere delle qualità in qualsiasi contesto: spesso in tv si fanno le cose di fretta senza pensare alla qualità, spesso si ritiene che il pubblico non sia all'altezza, che non capisca nulla. Io non credo sia così, per cui lavoro al cinema e alla tv e ai dischi nello stesso modo, pensando che se devo scrivere della musica, lo devo fare come se fosse l'ultima cosa che facessi.

Andrea
Però, Teho, nonostante questo sembra tu sia maggiormente apprezzato e compreso all'estero. Non è da poco il riconoscimento riservato da Colin Newman dei Wire, che ha inserito il tuo Soundtrack Work 2004-2008 nei suoi cinque dischi preferiti.

Teho Teardo
Contemporaneamente, però, in Italia Morricone ha espresso un parere molto positivo su di me, quindi posso dire che anche qui non mancano gli estimatori.
In generale trovo un buon riscontro in Italia, anche se questo paese ha una velocità inferiore rispetto ad altri, siamo più lenti, più vecchi...

Fabrizio
C' è qualcosa del panorama musicale italiano che ti circonda che invece ti piace o ti influenza?

Teho Teardo
Non particolarmente. Di certo nulla che mi influenzi, mi è piaciuto il nuovo album di Umberto Palazzo ma in generale trovo sempre troppa musica derivativa qui. Sono esterofilo per necessità, non per snobismo. Ho bisogno di ascoltare musica nuova, sono sempre alla ricerca di cose che mi intrighino e quindi un solo paese non basterebbe mai. Nulla contro l'Italia, non basterebbe nemmeno l' Inghilterra. Serve il globo ed ora l'accesso al mondo è più semplice e veloce, quindi perché accanirsi con un solo territorio quando se ne avrebbero a disposizione molti?

Andrea
A riguardo proprio dell'accessibilità, qual è il tuo rapporto con le tecnologie ed i media moderni? Credi in una società dell'informazione?

Teho Teardo
Bisognerebbe chiederlo a loro, visto che le utilizzo fino a sfiancarle. Non ho il mito della tecnologia, ogni nuova versione di Logic, uno dei software che uso per registrare, ha delle migliorie, ma inevitabilmente peggiora per altri aspetti. Lo dico perché questo sintetizza la mia visione delle tecnologie: l'accessibilità è un vantaggio, ma porta con sé anche molti svantaggi e nell'ambito musicale sono tantissimi.

Fabrizio
Infatti non è un caso che le band di qualità siano sempre più "sotterranee" o sbaglio?

Teho Teardo
Pensare che la qualità sia sotterranea spesso è una fregatura. Non è sempre sotterranea, altrimenti poi si finisce per pensare che sia solo lì e se qualcosa è underground invece non è necessariamente buona...

Andrea
Il fatto che la tua musica possa essere condivisa e ascoltata anche in maniera "illegale"
ti crea problemi, ti infastidisce?

Teho Teardo
L'aspetto "illegale" è talmente complesso che non so se sia facile affrontarlo in poche parole. Ho attraversato la fase delle cassette allora si diceva: home taping is killing music. Era addirittura stampato sui dischi, poi la facceda è scappata di mano con gli mp3, ma è anche vero che le major discografiche non hanno affatto capito l'importanza del fenomeno e mentre da una parte guadagnavano follie rivendendo lo stesso catalogo in cd dopo avercelo venduto su vinile e cassetta, contemporaneamente non hanno investito nulla né sulla musica né sulla possibilità di veicolarla diversamente.

Andrea
Pensiamo ad esempio ai Radiohead. In Rainbows è stata una grande rivoluzione, anche se è sicuramente più facile farla quando si è la più grande band del mondo.

Teho Teardo
Il senso di una rivoluzione non è distruggere quello che non ti va, ma creare qualcosa di alternativo e farlo funzionare. Loro ci sono riusciti. Le major, invece, hanno solo cercato di fare a pezzi il file sharing senza capire cosa ci fosse dietro e senza creare qualcosa di alternativo e magari di più efficace.

Andrea
In effetti In Rainbows ha incassato prima ancora di uscire, ossia semplicemente con il download ad offerta libera ed il preorder del box set, più di quanto avesse incassato Hail to the Thief.

Teho Teardo
A me fa solo piacere, sono bravissimi e se lo meritano. E poi sono anche intelligenti.

Fabrizio
Ci sono altre band o artisti che ti piacciono particolarmente?

Teho Teardo
Non saprei da dove cominciare. Qualche nome: Barn Owl, Factory Floor, Talk Normal, Belong, Brian McBride, Heavy Winged, Neal Morgan, Thomas Khoner.

Fabrizio
Io e Andrea ammettiamo la nostra ignoranza, questi nomi ci risultano in larga parte nuovi. Un'ultima domanda, Teho. Sono in molti a sostenere che ormai il rock ricicla da lungo tempo i suoi schemi. Credi che la musica di altre culture, ad esempio quella indiana, possa fornire l' influenza per approdare a qualcosa di nuovo?

Teho Teardo
Sì. Credo che il solo pensiero possa essere efficace: credo che il solo considerare che ci siano altre possibilità di intersezione possa generare nuovi progetti, indipendentemente dalla musica su cui si riflette. Il rock ricicla se stesso da troppi anni, ma la nostra società vive in una sorta di retroproiezione che va indietro di un paio di decenni. Se c'è un ambito musicale dislocato in più paesi che cerca di andare avanti a livello nazionalpopolare mi domando ancora quando arriverà il 2000, e siamo già nel 2011! Il revival dei precedenti due decenni è onnipresente, forse è rassicurante, ma a me invece spaventa sarebbe come avere qualcuno all'orecchio che ti ripete costantemente 1988, 1988, 1988, 1988.
Il riciclo in sè è molto interessante, pensa solo all'idea del campionatore, ma il senso è prendere qualcosa che già esiste e farlo diventare altro. Se diventa altro per me va benissimo, se rimane quel che era si tratta solo di una banale citazione. La citazione in musica riguarda il revival e, personalmente, l'idea di revival mi inquieta.
Sarebbe come essere al bar e qualcuno al tavolo di fianco dice: hey ragazze, lo sapete che hanno inventato la pillola anticoncezionale...

Fabrizio & Andrea
Teho, la nostra intervista finisce qui. Grazie ancora e in bocca al lupo.

Teho Teardo
Di niente ragazzi, a presto.

[Andrea Polidoro & Fabrizio Romano]

Teho Teardo

lunedì 16 gennaio 2012

Perché la musica degli anni zero è la migliore




Sarà che mi sono abbondantemente rotto di entrare in un pub e ascoltare la solita cover di Wish You Were Here, sarà che m' infastidisce chi cita innumerevoli volte Frank Zappa senza aver mai ascoltato un disco per intero, sarà che la moda del passatismo è una gran barba, sarà che è straniante conoscere tanti giovani appassionati che non hanno alcun interesse per la musica del proprio tempo, sarà che come dicevano i Kraftwerk "nessuno sarebbe lieto di farsi operare dal dentista con strumenti di trent' anni fa, ma molti vorrebbero che suonassimo strumenti del passato", ma è da qualche tempo che mi rendo conto di avere un particolare legame affettivo con la musica di questi ultimi anni. E non c' è dubbio che sulle orecchie di chi scrive la musica recente eserciti un fascino senza pari. In breve la musica prodotta dal 2000 al 2009 è la migliore che io abbia ascoltato. Qualche ragione ci sarà pure:

- PERCHE' CONTIENE QUELLA DEL PASSATO. Gli artisti degli ultimi anni non si sono dimenticati di chi li ha preceduti ed hanno avuto l' intelligenza di appassionarsi a quello che era accaduto prima di loro. Non rottura netta ma comprensione e innovazione. E allora ce n' è per tutti i gusti, anche per quelli difficili, dal cantautorato alla psichedelia, da chi utilizza strumenti acustici a chi non può prescindere dall' elettronica, dal pop più raffinato ma elegante alla sperimentazione più impegnata e sconvolgente.

- PERCHE' NON E' STORICIZZATA e getta un ponte verso ciò che non conosciamo. Se l' ascolto è fatto non solo da percezione, ma anche da condizionamenti, quando siamo veramente liberi di amare un disco se non quando conosciamo poco o niente riguardo alla sua importanza storica e alle opinioni altrui?

- PERCHE' CADONO I TABU'. Quando Dylan si cominciò ad esibire nei festival dei puristi del folk con la chitarra elettrica si prese fischi ed insulti. Quando nacque l' elettronica in molti ci videro un semplice deverissemet, che niente aveva a che fare con la musica di qualità. Quando i Velvet Underground suonarono The black angel' s death song il proprietario della sala d' incisione minacciò di cacciarli a calci nel culo se l' avessero suonata un' altra volta. Ormai ne abbiamo sentite di ogni, bisogna essere davvero rigidi per avere preconcetti verso il nuovo, in qualunque sembianza si manifesti.

- PERCHE' TUTTI SI INFLUENZANO A VICENDA. Esisteva una volta il rock. Esisteva la ambient. Esisteva l' elettronica. Esisteva il pop. Esisteva il soul. Esisteva l' hip-hop. Poi pian piano ci si cominciò a chiedere dove finisse l' hard rock e dove iniziasse il metal, dove finisse il post-rock e dove iniziasse il modern-classical. E tornò tanto di moda San Captain Beefheart che già nel 1969 ci aveva fatto capire che è inutile dare etichette, tanto non siamo sicuri neanche della nozione di ritmo e melodia. Conta solo l' espressività. E allora cadono muri come neanche faceva Roger Waters portando in scena uno degli album più brutti ma al contempo più influenti dei Pink Floyd. E allora oggi è difficile trovare una rock-band che non si avvalga di un synth, un compositore di classica che non guardi alla musica popolare, un cantautore che non sia interessato ai giochi di parole ed alla metrica dell' hip-hop. Non solo ascoltiamo la musica che più ci piace, ma senza accorgercene impariamo a rivalutarne altra e ad essere più aperti.

- PERCHE' LA CLASSICA NON E' FINITA. Anzi, ha ritrovato lustro, sprint. E' riuscita ad uscire dall' accademismo in cui era costretta, a ricercare soluzioni espressive alternative, rinunciando alla perfezione formale a tutti i costi (deo gratias). Ora grazie a sperimentazioni che coinvolgono sensazioni e umori inesplorati, ora strizzando l' occhio ai compositori del passato senza rinunciare alla rappresentazione del presente.

- PERCHE' E' PIU' REPERIBILE. La qualità di quel che si ascolta è condizionata anche dalla varietà. Oggi siamo in grado di poter ascoltare tutto (o quasi)  e farci un' idea più completa di quel che si suona tutt' intorno a noi. E' più facile e quasi doveroso formarsi un gusto proprio.

- PERCHE' I MUSICISTI SONO TORNATI AD ESIBIRSI TANTO DAL VIVO. E quale coinvolgimento maggiore può esserci se non ascoltare non più dalle cuffie, ma a pochi metri di distanza quegli artisti che ci fanno vibrare? David Bowie aveva preannunciato che questo sarebbe stato il tempo in cui gli artisti sarebbero dovuti a guadagnarsi il pane sul palco. Aveva ragione e sono esplosi festival più o meno grandi, che ospitano musicisti più o meno preparati. E allora c' è tutto il tempo di ascoltare, dedicarsi alla propria passione, confrontare, rimanere delusi, sbigottiti o ammaliati.

E alla fine ci sono cascato anche io, perché la musica degli anni zero è ormai bella che finita da più di due anni e mi approccio a quella degli anni dieci senza convinzioni se non una: sarà ancora più bella. Ascoltare per credere.



Fabrizio Romano




domenica 25 dicembre 2011

CLASSIFICA DEI MIGLIORI ALBUM DEL 2011

1. James Blake - James Blake

 Che ad aggiudicarsi la prima piazza sia un ragazzo di ventitre anni non deve stupire: il 2011 ha rappresentato l' anno delle rivoluzioni sociali guidate dai più giovani. James Blake, cresciuto nel sobborgo più a nord di Londra è risultato senz' altro la rivelazione dell' anno grazie alla sapiente commistione tra dubstep ed elettronica e ad una voce intima e delicata. Un' opera prima di altissimo valore, con l' augurio di un futuro ancora più brillante [Andrea Polidoro]








2. Bon Iver - Bon Iver


Si sa che, quando l'album di debutto riceve a giusto titolo moltissimi consensi, l'artista in questione è atteso dalla critica col coltello tra i denti. Bon Iver ha richiesto più tempo per essere compreso, recepito, interiorizzato, ma ci ha messo in seria difficoltà per l'assegnazione della palma di miglior disco dell'anno. Justin Vernon è un musicista straordinario che dal vivo, ne possiamo parlare a ragion veduta avendo assistito ad un suo concerto a Parigi, mostra tutta la sua classe ed eleganza. Un artista completo, membro di una nuova leva che non crediamo ci abbandonerà presto. [Andrea Polidoro]



3. Fucked Up - David Comes To Life

Se cercate la migliore band hardocre in circolazione l' avete già trovata. David Comes To Life è il capolavoro della band canadese, un concept album che mescola vivacità, potenza ed ironia. Un disco fortemente legato al rock, a forti schitarrate sovrapposte in un raffinato gioco di tessitura dei pezzi ed al cantato graffiante  e viscerale di Damian Abraham. E poi, come se non bastasse, le canzoni sono una più bella dell' altra. [Fabrizio Romano]








4. Tom Waits - Bad As Me

Quando è stata annunciata l'uscita del diciassettesimo album in studio di Tom Waits, i più hanno storto il naso. Ancora lui, si sono chiesti. L'immarcescibile Tom ha messo tutti a tacere con un disco d'impatto, straordinario per composizioni e liriche, che in annate di magra avrebbe potuto competere per i vertici.  L'ennesimo coniglio estratto da un inesauribile cilindro. [Andrea Polidoro]









5. Oneohtrix Point Never - Replica

Conferma che questo non è l' anno delle grandi melodie. Non che ce ne dispiaccia particolarmente, ma le strade imboccate da Daniel Lopatin sono quelle del minimalismo, della sovraincisione, della ripetizione, della decontestualizzazione. Ne viene fuori un album che non rientra certo nella categoria dell' easy listening, ma che trova la sua forza e la sua schiettezza nella continua variazione di ritmi e linee armoniche imprevedibili e spiazzanti. Per poter apprezzare un' opera del genere bisogna prima essere pronti a mettere in discussione ciò che ci si aspetta da un disco e saper giocare con la propria concezione di musica. Siate pronti a tutto. [F.R.]





6. Arrington De Dionyso - Suara Naga

Nel 1969 usciva Trout Mask Replica di Captain Beefheart, semplicemente il primo capolavoro "inascoltabile" della storia. De Dionisyo conosce bene la lezione del Capitano e si diverte a destrutturare il rock e poi ricomporlo unendovi elementi antichi e ancestrali; in questo caso avvalendosi della musica tradizionale indonesiana in una ricerca "monkiana" della primigeneità dell' ascolto. Un' opera in bilico tra Oriente ed Occidente, tra il cantato indonesiano (con cui porta al limite le proprie capacità canore) e strumenti tipici del rock, tra mestiere e misticismo, tra solidi edifici e capanne di fango. [F.R.]






7. Danger Mouse & Daniele Luppi - Rome


Più che un concept album, una pièce teatrale. Burton e Luppi, coadiuvati da Jack White e Norah Jones, traslano la Città eterna su un pentagramma, dipingendone luci, colori, stagioni, attimi. La tradizione morriconiana ha trovato degni e riconoscenti eredi. Da ascoltare tutto d'un fiato. [Andrea Polidoro]









8. Anna Calvi - Anna Calvi

Classe come se piovesse. Lasciate perdere il brutto album dei Coldplay, è questo il miglior disco pop/rock dell' anno. Scrittura precisa e raffinata, bel canto di grande impatto, canzoni moderne che strizzano l' occhio alla tradizione. C' è voluto poco prima che l' olimpo del rock si accorgesse di lei. L' album di esordio di Anna Calvi è un' opera che stimola visioni oniriche dark (a.k.a. brutti sogni?) facendoti sentire al caldo sotto il tepore delle coperte. [F.R.]







9. PJ Harvey - Let England Shake


Il 2011 da protagonista di Lady Polly Jean: Let England Shake è l'altro concept album che entra di diritto e di forza nella nostra classifica. Tantissime le influenze extra-musicali dichiarate dalla stessa autrice, dalla poesia di T.S. Eliot alla pittura di Goya e Dalì passando per eventi storici significativi come la battaglia di Gallipoli. La volontà di scuotere un popolo addormentato ma fiero ed orgoglioso. Britishness. [Andrea Polidoro]







10. Tim Hecker - Ravedeath, 1972

Ricordare il passato attraverso una musica nuova e attuale. Ravedeath, 1972 è fondamentalmente un disco di elettronica, anche se nelle partiture ricorda una composizione per orchestra, giocato tra visioni nebulose (fog) e afflati noise, momenti visionari e momenti lirico-descrittivi. Malinconicamente moderno. [F.R.]
















Menzioni Speciali per Opere Prime pubblicate in Italia:


Bancale - Frontiera






Junkfood - Transience










Le Classifiche dei redattori:


Andrea Polidoro

1. James Blake - James Blake
2. Bon Iver - Bon Iver
3. Tom Waits - Bad As Me
4. Danger Mouse & Daniele Luppi - Rome
5. Pj Harvey - Let England Shake
6. Tinariwen - Tassili
7. Fucked Up - David Comes To Life
8. Verdena - Wow
9. tUnE yArDs - W H O K I L L
10. Oneohtrix Point Never - Replica



Fabrizio Romano

1. James Blake - James Blake
2. Fucked Up - David Comes to Life
3. Bon Iver - Bon Iver
4. Arrington De Dionysio - Suara Naga
5. Anna Calvi - Anna Calvi
6. Tim Hecker - Ravedeath, 1972
7. Ambrose Akinmusire - When The Heart Emerges Glistening
8. Crystal Stilts - In Love With OBlivion
9. Valdislav Delay - Vantaa
10. Oneohtrix Point Never - Replica



venerdì 18 novembre 2011

Fleet Foxes @Roma (Atlantico) 17/11/2011. L' ultima frontiera del pop acustico.






Siamo nell' epoca in cui anche un cantautore come Jeans Leakman, il cui set dal è formato da voce, chitarra e batteria (stop), non rinuncia comunque ad avere al fianco un sintetizzatore, suoni campionati, a smanettare un pò con le manopole.
I Fleet Foxes, band statunitense molto apprezzata dalla critica, è una delle poche, se non l' unica nell' attuale scena pop/rock a salire sul palco con un set totalmente acustico, fatta eccezione per qualche timida chitarra elettrica che spunta quà e la in qualche pezzo. Della loro diversità hanno fatto la loro forza e in un raffinato lavoro di intrecci e sovrapposizioni hanno trovato la loro attualità.
E' per questo che vederli dal vivo lascia soddisfatti ma senza impressionare; da una parte salta subito all' orecchio che la loro bravura e il gioco di incastri non sia semplicemente dovuto ad un sapiente lavoro di studio, ma soprattutto ad una perfetta alchimia tra i componenti, dall' altra alcuni passaggi delicati e sottili virtuosismi sono destinati a perdersi tra lo strepitio della folla. Del resto in Italia, si sà, il pubblico è sempre caloroso.
Il concerto non inizia sotto una buona stella e nei primi tre/quattro pezzi i fonici fanno un pò di confusione: la batteria è preponderante ed oscura il resto degli strumenti, la voce principale è bassa ed il coro la surclassa invece di amalgamarsi in quegli impasti vocali che sono il loro marchio di fabbrica. Fortunatamente pian piano tutti trovano i giusti equilibri e subito si nota che Robin Pecknold canta infinitamente meglio ora nei live che nell' album di esordio, figurarsi rispetto all' Ep che li ha lanciati. Avere una scorta di pezzi meno intimisti e più movimentati aiuta il concerto a non avere cali, anzi, a proseguire in un crescendo, e sono proprio i pezzi come Ragged Wood a coinvolgere maggiormente ed a restituire qualcosa in più rispetto al disco.
Ma i Fleet Foxes dimostrano anche di saperci fare regalando nel bis un pezzo inedito e conservando per il gran finale quello che è il loro pezzo migliore, un vero e proprio gioiellino di armonia e ritmo: Helplessness Blues.



Fabrizio Romano



giovedì 10 novembre 2011

Vantaa di Vladislav Delay esplora mondi gelidi

                                                                                                             




C' era una volta Sasu Ripatti, un batterista che studiava per diventare un grande musicista jazz. Ad un certo punto Sasu si stacca da quel genere, sente nell' aria quella puzza di cadavere di cui già Frank Zappa parlava alla fine del millennio scorso.
E' la svolta. Il protagonista della nostra storia cambia casacca e si getta a capofitto in numerosi esperimenti. La sua personalità inizierà a sdoppiarsi e quadruplicarsi, utilizzando un discreto numero di alias a seconda della situazione: sarà Luomo se ha a che fare con la vocal house, Uustialo o Sistol se si tratta di club music, Vladilav Delay se si cimenta nella ambient/noise, unirà il suo aka con quello della moglie (Agf/Delay) per cimentarsi nella forma canzone e nel pop, infine formerà un quartetto, il Vladislav Delay Quartet, per tornare alla batteria ed al jazz/noise.
Oggi Sasu ritorna come Vladislav Delay, il suo alter-ego più autentico, come lui stesso afferma: “Vladislav Delay, fondamentalmente sono io”. Il suo nuovo disco, Vantaa, è un tuffo. Un tuffo nella sua anima, nella sua musica, ma anche nelle acque della sua Finlandia, un gioco di rimandi continui e di successioni mutevoli che collegano in modo inscindibile l' uomo alla natura, descrivono l' uno come parte del tutto, dipingono il mondo interiore dell' artista per riflettere l' ambiente esteriore in cui vive fino a perderne i contorni.
Già come fece un grande compositore con un passato da batterista batterista come Robert Wyatt nell' incipit di Sea Song, Delay utilizza già dalla seconda traccia “Henki” dei sospiri come stratagemma per portare con l' immaginazione l' ascoltatore in riva al mare, ma a differenza dell' ex Soft Machine non li usa per intessere la sezione ritmica ma li pone sullo sfondo. Il disco procede rassicurante nel suo stile ambient ribaltandone la prospettiva: da musica che si attaglia ad un certo ambiente ed è sempre diversa proprio perché ridondantemente sempre uguale, a composizioni che descrivono paesaggi e stati d' animo. Non è la prima volta che Delay si cimenta in viaggi interiori e flussi di coscienza, lo aveva già fatto nel suo capolavoro “Anima”, disco composto da una sola traccia di un' ora, Ulisse della musica elettronica. Stavolta cambia la prospettiva, è come se mondo interiore e mondo esteriore si fondessero in un liquido, rendendo la metafora del mare, che percorre tutto il disco, ancora più efficace.
Ma la visione panteistica fino a questo punto dominante viene interrotta bruscamente nel pezzo “Lauma”, vero apice dell' album, in cui materia e non materia si scontrano una progressione devastante e drammatica, dove le tensioni noise prendono pian piano il sopravvento sull' incalzare continuo del beat, deflagrando nell'ultimo minuto.
A questo punto del disco le tensioni rumoristiche diventano protagoniste, turbano l' equilibrio della composizione, rendono plastica e viva la struttura armonica.
Un tuffo, si diceva, con cui si sprofonda nel mondo di Sasu Ripatti e se ne riemerge placidamente scossi.

Voto: 7,5


Fabrizio Romano

Potete asoltare l' album in streaming qui