Dice che il rock è morto. E' stato detto tante di quelle volte e da esponenti tanto autorevoli che sembra un assunto difficile da contrastare. E allora in questo 2011 capita di parlare sempre più spesso di world music elettronica, techno, e ovviamente di dubstep.
Poi, verso giugno, esce un disco dei Fucked Up, ostinati nel perseguire la strada rockettara, di quella tosta e distorta dell hardcore, del punk. Ed ecco che il rock torna in tutta la sua maestà dal Canada a strizzare l' occhio all' essenza più pura di questo stile, a quella degli anni '70 e '60, a ricercare un progetto che sembrava ormai svanito, smantellato, obsoleto: l' opera rock.
Chiamatelo anche concept, se volete, ma quella che viene descritta in quest' opera magna di 78 minuti (doppio disco) è una vera e propria storia, quella di David, operaio in una fabbrica di lampadine che si innamora, che deve affrontare la morte della ragazza da lui amata ed i sospetti di chi indaga. Attraverso una lunga serie di peripezie David torna alla vita, alla sua essenza, alla ricerca dell' amore.
Il cantato di Daniel Abraham sfiora e spesso tocca il growl, tecnica utilizzata soprattutto nel death-metal, ma ne svuota completamente il senso funereo, macabro, per dare al canto un' impronta ruvida, reale, arrabbiata che al contempo sprizza gioia di vivere e amore per i personaggi del racconto ad ogni nota. E' un canto che viene dal profondo e ricerca la profonda sensibilità di chi ascolta.
Il tappeto ritmico che intessono basso e chitarra è fittissimo e vibrante quasi mosso da un timore di horror vacui, di non partecipare in ogni singolo momento alla struttura del pezzo. Le chitarre sono sferzanti e fanno la differenza nell' economia del disco perché a loro è affidato il compito di uscire da un discorso monotono, pur mantenendo l' uniformità stilistica che caratterizza l' album.
Quello che davvero impressiona è la sequenza di belle canzoni una dietro l' altra, senza momenti di calo, senza pezzi c.d. “riempitivi”, senza che l' attenzione venga meno; da Queen of Hearts a The other shoe fino a Truth I Know e One more night. Del resto i punti di riferimento, come già detto sono proprio dischi doppi di grande spessore: Zen Arcade degli Husker Du, Quadrophenia (ma anche Tommy) degli Who e, per certi versi The River di Bruce Springsteen, il tutto miscelato con la forza anarchica e dirompente del punk dei Germs.
Quello che si ascolta è un disco espressionisticamente mirato a far aprire le riserve e le indie-snobberie dell' ascoltatore, a ritrovare la voglia di raccontare storie; storie di cambiamento, di ritrovamento di punti di riferimento che sembravano perduti, di amore e di morte, di ritorno a una vita nuova.
Allora è l' ennesima dimostrazione che il rock non è morto, che c' è ancora una speranza, che può tornare padrone della scena? No. Semmai è una ulteriore dimostrazione che il rock è finito, ma che ha lasciato un lascito che ha segnato indelebilmente la storia della musica in modo profondo, fin nell' essenza. Il rock è sempre stato un modo di fare le cose, ecco, si possono e si devono cercare linguaggi nuovi ed alternativi, ma da questo modo di fare le cose non si torna più indietro, non si prescinde più.
Voto: 8,5
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