giovedì 5 maggio 2011

Susanne Sundfør - The Brothel (2010)









L' avevamo detto e lo ribadiamo, la musica si và tingendo di rosa. Saranno le donne a condurci dal rock a qualcos' altro, anche se non si capisce ancora bene cosa. Mi era sfuggito, era sfuggito praticamente a tutti un album del 2010 di una certa Susanne Sundfør e l' abbiamo tralasciato colpevolmente, perché ci stavamo perdendo un gioiello.

Da dove sbuca fuori questa ragazza (classe 1986) che canta divinamente, in maniera sottile o piena a seconda dei casi, che mi ricorda cosi tanto quello di Joni Mitchell? Scopro che questo nuovo talento in realtà aveva già inciso un album e che viene dalla Norvegia. Non me ne sorprendo affatto. Oggi il Nord Europa pare proprio essere un centro musicale in grande fermento, basti pensare a un gruppo fondamentale come i Sigur Ros, ai meno conosciuti Mum, all' avanguardia dei Supersilent, o per andare inidetro di qualche anno senza spostarci dalla Norvegia ai Bel Canto e ai Royskopp.

Scandinavia terra di atmosfere sospese, di fiabe incantate, di atmosfere sognanti, se lo si vuole trasporre in musica: terra di Dream-pop. Ma non solo, non è da sottovalutare l' apertura mentale degli artisti che provengono da quelle zone, desiderosi di giocare, mischiare, azzardare, sperimentare. Allora agli incanti iniziali del vibrafono si sostituiscono le inquietudini dell' elettronica, come dimostra lo spiazzante duetto di brani posto a incipit del disco: The Brothel e Lilith. Prorpio quando credi di aver capito dove ti porti il disco Susanne ti sorpende ancora e nella successiva Black Widow è proprio la voce lo strumento che domina il brano, ti prende per mano e ti conduce nel suo mondo, prima di assesstarti un bel cazzotto in pieno volto con gli archi dissonanti di It' s all gone tomorrow. Il disco continua cosi, sorprendendoti ad ogni canzone, pur mantenendo uno stile compositivo di fondo, conducendo l' ascoltatore per sentieri impervi che solo un ottimo impianto stereo è in grado di reggere come nella gelida e macabra O Master, passando per le fantasie elettroniche di Lullaby e arrivando, infine, al capolavoro Father Father, il momento più teneramente lirico dell' opera.

Molto più di un esercizio di stile, molto più di uno sfoggio di capacità, in questo disco il pop, la lirica e l' elttronica si ritrovano coinvolte in un torbido ménage a trois in cui si scoprono diversi l' uno dall' altra e si fondono al contempo, creando qualcosa di meraviglioso, fragile, delicato, tanto evanescente da poterlo solo sfiorare, ma da cui è difficile non farsi attraversare.

Voto: 8
Troppo? Ascoltare per credere, o per contestare.

Fabrizio Romano

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