lunedì 7 novembre 2011

Lulu: Metallica a lezione da Lou Reed sceneggiatore.

                                                                             




Alla notizia che Lou Reed era pronto a fare uscire il suo nuovo album scritto e suonato i Metallica ho pensato: "perfetto, ci siamo giocati anche lui". Si perché l' idea che oramai la vena creativa di Lou,  alla soglia dei settanta anni, si fosse esaurita è passata per la mente di tutti e che il coinvolgimento di una band finita come i Metallica fosse un' operazione pubblicitaria fine a sé stessa lo si dava anche per scontato. Ascoltando i primi quindici secondi di ogni traccia usciti in anteprima in streaming il palmo della mia mano raggiungeva velocemente la mia faccia in un misto tra incredulità e compassione per quella che mi appariva come la tamarrata dell' anno, roba da fare imbarazzare anche quegli aitanti giovani che ballalano promiscuamente su MTV (beati loro).
Ecco, la lezione numero uno che impartisce questo disco è: mai sottovalutare Lou Reed.
La lezione numero due di questo disco invece è: ti aspetti un disco di Lou Reed e Metallica? Illuso! Ti ritrovi l' opera teatrale di Reed più compiuta dai tempi di Berlin (sarà un caso se la storia inizia sotto la porta di Brandeburgo?) e i Metallica che suonano sullo sfondo.
Insomma, questo disco bisogna prenderlo per quello che è: un' opera in cui Lou Reed si cimenta nella sceneggiatura, più che nella composizione, in cui la maschera ti invita a prendere posto nel loggione e assistere allo show.
Gli indizi per arrivare alla conclusione che questo disco ha a che fare più col teatro che con la musica sono troppi per non essere colti:
  • L' idea originale nasce dalla trasposizione teatrale di Robert Wilson del personaggio di Lulu, femme fatale concepita dalla mente di Frank Wedekind
  • Reed si avvicina al progetto concependo una colonna sonora da portare a teatro, ma poi cambia idea e pensa ad un disco
  • Lou non canta (quel poco cantato è affidato a Hetfield), recita e usa lo spokenword in modo sistematico come, a memoria, non aveva mai fatto.
  • L' impressione è quella di un' opera recitata dall' ex Velevet Underground con i Metallica alla colonna sonora.
  • La lunga durata del disco, quasi pari a quello di una piéce.
  • Siamo oltre il concept; è una storia che ha un' introduzione, uno svolgimento e una fine, una narrazione compiuta e completa come capita in pochi dischi di cantautorato, figurarsi in altri.
Se prendiamo per buona l' introduzione la musica rimane sullo sfondo e non fà altro che aumentare il pathos e l' atmosfera drammaticamente dark legata al racconto, senza grandi pretese ulteriori. Và detto che la ragione per cui provo antipatia per gran parte del metal è che la bravura degli interpreti rimane fine a sé stessa. Proprio quello che non capita in questo disco.
I testi di Reed fanno l' opera e la qualità della scrittura è impressionante per violenta raffinatezza e per disturbata eleganza. Lulu pian pian piano si trasforma in Lou, che racconta con sincerità il suo rapporto con i suoi affetti, da sempre turbato, ambiguo, oscuro, feroce. 
Se é vero che ogni opera di uno scrittore è un pò autobiografica, forse, questa, per Reed scrittore, lo è un filo più delle altre "Desidero così tanto farti del male. Sposami. Ti voglio come moglie." (frustration) Illusione e disillusione, soddisfazioni e fatica, affidamenti e tradimenti di un Signore che ha sempre voluto scrivere e raccontare delle passioni e delle vite degli altri come nessun altro sà fare, e che alla fine si arrende a ciò che non sà capire: "Lascia che la luce delle stelle coli giù Come una candela in un beccuccio Lascia che lo stoppino si consumi e cada Lascia che la luce stellare s’irradi Perché mi tradisci? Perché mi  tradisco? Perché mi tradisci? Perché mi disprezzo?Perché mando a cagare i miei sogni? È perché è così che va".(Cheat on Me"


Fabrizio Romano

sabato 17 settembre 2011

Vegetable G - L'Almanacco Terrestre

La copertina del nuovo lp dei Vegetable G, prodotto da Ala Bianca e distribuito da Warner

Alzi la mano chi non pensa al celeberrimo gioco di società quando gli si parla di Monopoli. Qui, però, non vogliamo parlare del passatempo per giovani capitalisti, bensì di una cittadina posta sull’Adriatico, in provincia di Bari, che porta lo stesso nome. È proprio a Monopoli che, nel 2002, Giorgio Spada e Luciano D’Arienzo, cui in momenti diversi si aggiungeranno Maurizio Indolfi e Michele Stama, formano i Vegetable G. Dopo quattro dischi in inglese, arriva la produzione importante, Ala Bianca, e il dietrofront linguistico: lo scorso maggio la band pubblica l’ep La Filastrocca dei Nove Pianeti, preambolo a L’Almanacco Terrestre. Mi trovo a riflettere proprio sulla parola almanacco la quale mi rimanda, oltre che agli studi astronomici, agli annuari calcistici pubblicati ad ogni fine campionato con statistiche e classifiche individuali: ecco, questo album rappresenta una summa, un compendio dei generi musicali che, nel corso della loro carriera, Giorgio Spada e i Vegetable G hanno attraversato e indagato. Dentro questo lavoro vi è la storia passata, presente e futura del gruppo pugliese. Le sonorità e le melodie si pongono in continuità con la produzione precedente e raggiungono, nel presente, una maturazione completa, grazie ad arrangiamenti molto eleganti e ricercati cui si unisce il contributo dei fiati di Enrico Gabrielli. Le liriche, ora in italiano, segnano invece un’inversione di rotta, marcando il solco, il percorso da seguire negli anni a venire.

La struttura del disco, un concept album di 10 tracce per un totale di 33 minuti che per via del tema e di alcuni tratti musicali ricorda The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars di David Bowie, riflette un’impostazione lineare ed un’evoluzione stilistica ormai proprie di una formazione affiatata e ben assortita. Tra le canzoni che compongono l’opera vegetale spicca Il cielo di Van Gogh, sorta di manifesto che rappresenta una vera e propria dichiarazione di intenti: l’invito ad accendere il razzo nucleare, ossia ad entrare nel mondo dei Vegetable G, è rivolto sia ad un eventuale partner che all’ascoltatore trascinato tra mondi onirici e visionari. Forte è il richiamo ad un certo tipo di produzione battiatiana, su tutti Mondi Lontanissimi, ma vi è, all’interno del disco, qualche eco diffuso della produzione cantautoriale italiana degli ultimi anni. Penso in particolare a La Favola di Adamo ed Eva di Max Gazzè e a Da A ad A di Morgan, artisti mainstream che arrivano a quel grande pubblico cui i Vegetali per capacità, ed ora anche per produzione e distribuzione, possono legittimamente puntare.   
 
[Andrea Polidoro] 

Potete ascoltare l'album in streaming integrale cliccando qui.

mercoledì 14 settembre 2011

Mariposa @ Milano Film Festival 11. 9. 2011





Mi trovo, prima volta nella vita, a Milano. Giorni caldi, umidi, soleggiati: l’ideale per stare in città e avvertire pesantemente la mancanza del mare nostrum. Nonostante il condizionatore ed il campionato, è domenica pomeriggio quindi si va in centro, al Milano Film Festival. Ci sono i Mariposa, non si può di certo mancare. L’orario è quello milanese per eccellenza, l’ora dell’aperitivo. L’ambiente è caloroso e accogliente: il Sagrato, diciamo il cortile, del Teatro Strehler, quartiere Brera, accanto al Castello Sforzesco e a Parco Sempione, a pochi passi dalla sede del Corriere e dalla Pinacoteca, nel cuore pulsante della Città. 

Se il tramonto meneghino illumina e impreziosisce il proscenio, i costumi e le capigliature dei Mariposa rendono tutto colorato e fiabesco. Con grande stile, per dirla a modo loro. Il settetto di musica componibile è al gran completo, volti distesi, tranquilli e sorridenti come sempre. Pterodattili, traccia di apertura del loro ultimo lavoro in studio, Semmai Semiplay, accoglie il numerosissimo pubblico del festival. Pubblico vasto, sì, ma disciplinato, il quale sprofonda nel silenzio quando le tastiere di Gianluca Giusti ed il campionatore di Michele Orvieti prendono vita. Per Alessandro Fiori giunge il momento di togliere le scarpe e dare mostra delle proprie, indiscutibili, capacità canore. Dopo la corsetta del leader carismatico sull’aiuola attigua al palco durante un secondo breve intervallo strumentale che chiude Pterodattili, si prosegue con Santa Gina, Chambre e Tre Mosse. La scelta è quella di seguire, in scaletta, la tracklist dell’album: scelta azzeccatissima poiché le canzoni si susseguono in maniera eccellente e si incastrano alla perfezione una dopo l’altra, perle di un’unica, incantevole, collana. Enrico Gabrielli va altalenandosi magistralmente tra sax, flauto e xilofono, mentre Enzo Cimino alla batteria è un mix di brio ed esplosività. Dopo l’esecuzione quasi integrale di Semmai Semiplay, l’ensemble anima, corpo e mente del riuscitissimo esperimento discografico Trovarobato attinge anche al penultimo omonimo lavoro con Specchio, Zucca e Zia Vienna.

L’ironia e il cabaret non mancano di certo in questa meravigliosa esibizione: nelle battute finali, il bravissimo Valerio Canè offre una esilarante imitazione di Manuel Agnelli che, sul sedile posteriore di un auto, canta Per colpa di chi di Zucchero Fornaciari. Come nella migliore tradizione Mariposa, ci si congeda con la teatrale Tutta Roba Marca con annessa discesa dal palco per il coretto di commiato.

Nella città di Giorgio Gaber, padre emerito del teatro canzone, i Mariposa danno nuovamente dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno, della loro immensa grandezza. Il cantautorato sperimentale della band, legato indiscutibilmente alla forma canzone nostrana, rappresenta una eccezionale anomalia tutta italiana, capace di divertirsi, far divertire e rinnovarsi. Ciò che più colpisce è l’incredibile armonia e concordia che regna sul palco: di eccessivi protagonismi e di irrefrenabili egotismi non vi è traccia alcuna, ciascuno apporta con impegno ed accuratezza il proprio contributo. I Mariposa sono merce rara, sono una band che dovrebbe suonare in giro per le scuole per dare l’esempio a chiunque si voglia avvicinare alla musica, lontano dalla barbarie mediatica.

Mentre rifletto sulle possibilità pedagogiche del progetto nato nella “mia” Bologna dodici anni orsono, vado via felice e soddisfatto, sussurrando evviva, evviva i Mariposa.

[Andrea Polidoro]

mercoledì 27 luglio 2011

Fucked Up - David comes to life







Dice che il rock è morto. E' stato detto tante di quelle volte e da esponenti tanto autorevoli che sembra un assunto difficile da contrastare. E allora in questo 2011 capita di parlare sempre più spesso di world music elettronica, techno, e ovviamente di dubstep.
Poi, verso giugno, esce un disco dei Fucked Up, ostinati nel perseguire la strada rockettara, di quella tosta e distorta dell hardcore, del punk. Ed ecco che il rock torna in tutta la sua maestà dal Canada a strizzare l' occhio all' essenza più pura di questo stile, a quella degli anni '70 e '60, a ricercare un progetto che sembrava ormai svanito, smantellato, obsoleto: l' opera rock.
Chiamatelo anche concept, se volete, ma quella che viene descritta in quest' opera magna di 78 minuti (doppio disco) è una vera e propria storia, quella di David, operaio in una fabbrica di lampadine che si innamora, che deve affrontare la morte della ragazza da lui amata ed i sospetti di chi indaga. Attraverso una lunga serie di peripezie David torna alla vita, alla sua essenza, alla ricerca dell' amore.
Il cantato di Daniel Abraham sfiora e spesso tocca il growl, tecnica utilizzata soprattutto nel death-metal, ma ne svuota completamente il senso funereo, macabro, per dare al canto un' impronta ruvida, reale, arrabbiata che al contempo sprizza gioia di vivere e amore per i personaggi del racconto ad ogni nota. E' un canto che viene dal profondo e ricerca la profonda sensibilità di chi ascolta.
Il tappeto ritmico che intessono basso e chitarra è fittissimo e vibrante quasi mosso da un timore di horror vacui, di non partecipare in ogni singolo momento alla struttura del pezzo. Le chitarre sono sferzanti e fanno la differenza nell' economia del disco perché a loro è affidato il compito di uscire da un discorso monotono, pur mantenendo l' uniformità stilistica che caratterizza l' album.
Quello che davvero impressiona è la sequenza di belle canzoni una dietro l' altra, senza momenti di calo, senza pezzi c.d. “riempitivi”, senza che l' attenzione venga meno; da Queen of Hearts a The other shoe fino a Truth I Know e One more night. Del resto i punti di riferimento, come già detto sono proprio dischi doppi di grande spessore: Zen Arcade degli Husker Du, Quadrophenia (ma anche Tommy) degli Who e, per certi versi The River di Bruce Springsteen, il tutto miscelato con la forza anarchica e dirompente del punk dei Germs.
Quello che si ascolta è un disco espressionisticamente mirato a far aprire le riserve e le indie-snobberie dell' ascoltatore, a ritrovare la voglia di raccontare storie; storie di cambiamento, di ritrovamento di punti di riferimento che sembravano perduti, di amore e di morte, di ritorno a una vita nuova.
Allora è l' ennesima dimostrazione che il rock non è morto, che c' è ancora una speranza, che può tornare padrone della scena? No. Semmai è una ulteriore dimostrazione che il rock è finito, ma che ha lasciato un lascito che ha segnato indelebilmente la storia della musica in modo profondo, fin nell' essenza. Il rock è sempre stato un modo di fare le cose, ecco, si possono e si devono cercare linguaggi nuovi ed alternativi, ma da questo modo di fare le cose non si torna più indietro, non si prescinde più.

Voto: 8,5


Fabrizio Romano

martedì 19 luglio 2011

Love the Unicorn - Back to 98

La copertina dell'ep dei Love the Unicorn
In questo mondo di Cani. Negli ultimi tempi, Roma ha catalizzato su di sé l’attenzione di addetti ai lavori, riviste, blog, nonne e zie per via di una fantomatica band ultrapop. Personalmente, c’è qualcosa che trovo gradevole in quel progetto, ma è poca roba. Per fortuna, nella capitale non c’è soltanto l’unità cinofila ma c’è anche qualcosa che vive e si muove più nelle segrete, nei sotterranei, di un patrimonio umano e artistico smisurato. Nella città eterna ci sono anche cinque giovanissimi ragazzi che hanno da poco registrato e pubblicato, in tutta autonomia, il loro primo easy play dal titolo Back to 98, ascoltabile qui. Nell’ambiente capitolino i Love the Unicorn, questo il nome della band, si son fatti conoscere con un buon numero di live, molti dei quali di spalla a gruppi già affermati e seguiti. Per quella che è la mia storia personale, non posso non pensare a questo animale mitologico in chiave anime: nel cartone che più amavo da piccino, i Cavalieri dello Zodiaco, Asher, dell’Unicorno appunto, era uno di quei personaggi anonimi di cui ci si ricorda soltanto per l’incondizionata fedeltà a Lady Isabel e per i frequenti litigi con Pegasus.

Mentre cerco di togliermi dalla testa le Dodici Case e i Cavalieri d’oro, inizio l’ascolto dell’ep, composto di tre tracce. La prima canzone, True Love Kills, mi aiuta molto a raggiungere questo risultato. Con una delicatissima atmosfera sospesa tra il pop e la psichedelia, i cinque giovincelli romani riescono a creare in me quella trance melodica di cui ho bisogno al mattino, appena sveglio. La voce ed il synth di Marco, entrambi utilizzati in maniera corretta ed elegante, senza sbavature e barocchismi, recitano la parte principale all’interno di una composizione ben assortita e studiata. Subito dopo, Back to 98 segna una decisa virata verso quel divertissement tanto caro alla stagione estiva. Qui è la batteria di Francesco a dettare i tempi, ma sono i cambi di direzione repentini delle due chitarre a donare all’insieme quella freschezza necessaria per portarmi a considerarla un’ottima colonna sonora per il caldo di questi giorni. Le influenze degli anni Novanta cui, da titolo, si vorrebbe far ritorno sono evidenti ma non mancano riferimenti più recenti e attuali: innovare prendendo spunto da quanto di buono è stato già fatto finora è un punto a favore di ragazzi poco più che ventenni. La terza, conclusiva, traccia richiama, invece, sia nella forma che nella sostanza i suoni e le melodie degli anni Ottanta: This Charming Girl ha molto più a che vedere con la celebre canzone degli Smiths che con un melodramma sudcoreano del 2005. Quello che è il mio pezzo preferito di questo breve lavoro in studio è caratterizzato da una sezione ritmica intensa e gioviale che non disdegna una chiusura in chiave New Order.

Tre pezzi non bastano a tracciare la carta d’identità di un gruppo così giovane e, sicuramente, in costante divenire. Già poco avvezzo alle classificazioni, non farò un’eccezione per questi ragazzi che sono riusciti a farsi apprezzare attingendo dal surf, dalla new wave, dal pop, dall’ambient. Un ep è, per definizione, un lavoro incompiuto che serve a far conoscere le proprie intenzioni, per me in questo caso molto buone. Talento e creatività non sembrano mancare, stiamo a vedere che succede.

[Andrea Polidoro] 

sabato 9 luglio 2011

venerdì 8 luglio 2011

mercoledì 6 luglio 2011

Karibean - Love, Tears & Spiritual Blessing

La copertina dell'ep dei Karibean, pubblicato lo scorso 5 giugno.

La mia giornata di oggi non era assolutamente cominciata nel migliore dei modi. Svegliato alle 9 e 30 dal lavorio degli operai sotto la mia finestra, memore di un lungo confronto con i miei colleghi avuto pochissime ore prima, senza nessuno che mi preparasse il caffè a casa. Ero pronto alla mia razione di, come si suol dire, sangue amaro giornaliero quando una innocua scoperta rischiara la luce di una giornata che si annunciava a tinte foschissime. Mi imbatto in una canzone dal titolo molto simbolico ed evocativo che mi prende, mi scuote, mi colpisce dritto alla testa. Conquistato da un’estasi melodica, inizio ad indagare su quelli che non stento a definire i miei Salvatori. Si tratta dei Karibean, trio marchigiano che ha da poco pubblicato un ep, registrato tra gennaio ed aprile nello studio del Loop club di Osimo, dal titolo Love, Tears & Spiritual Blessing. E’ proprio così: la musica di Enrico Carletti, Corrado Verdolini e Luca Gobbi assume nella mia fu triste mattinata i connotati di una benedizione spirituale. Passo allora all’ascolto dell’easy play, che potete scaricare gratuitamente da qui. La traccia di apertura, Xmas vibration, è in pieno stile Beach Boys, e questi ragazzi non sembrano assolutamente volerlo nascondere. La chitarra e la batteria danno il tempo all’inizio della stagione torrida, disegnando onde, surfisti, camicie a fiori e pagliette. We need the sun irrompe decisa a spazzare metaforicamente via le nubi dalla testa di qualsivoglia ascoltatore: la si vorrebbe ascoltare così tante volte che sembra essere catapultati indietro negli anni, ai tempi delle hit estive preadolescenziali. Che questa canzone abbia i connotati del successo di massa – ma di elevata qualità, sia chiaro – se ne sono accorti anche al Guardian, ma non facciamo caso al solito silenzio tutto italiano. Le tracce successive costruiscono un ponte con il 1986, anno di pubblicazione della celeberrima musicassetta C86 da parte del settimanale britannico NME: vi sono notevoli richiami a quelle atmosfere pop, a quel mood. Gregorian spring, con la sua struttura melodica perfetta ed i coretti da falò di ferragosto, conferma questa tendenza, così come le ultime due tracce che chiudono 15 minuti di inaudita freschezza. Questi ragazzi dell’East Coast italica riescono, con cinque canzoni d’impatto notevolissimo, a ricordarci che qualcosa di buono si muove sottoterra, che il vento può cambiare davvero dappertutto, per voler usare un’espressione molto in voga. Con il mix di pop e surf rock prodotto dai Karibean, nome che prende spunto dalle magliette estive della Benetton 012, l’estate 2011 apre ufficialmente i battenti. Ed io, adesso, ho proprio voglia di un Mojito.

[Andrea Polidoro]

Intervista: Eveline





Un gruppo di spessore, con una fama consolidata alle spalle, è in giro per la penisola italica a presentare l’ultimo lavoro in studio. Parliamo degli Eveline, band bolognese d’adozione che ha da poco pubblicato il proprio terzo album, αω. Tra le tappe del loro tour ce n’è anche una al Mary Rock – con il quale, ovviamente, intratteniamo un rapporto diretto e privilegiato – il 2 luglio, in un ventilato sabato sera nel Sudpontino. Che siano ragazzi molto cordiali e disponibili, oltre che musicisti straordinari, ce ne accorgiamo subito, molto prima del sound check. Accettano con entusiasmo di suonare un pezzo per noi ed inoltre ci concedono una lunga chiacchierata che va a toccare le tematiche più varie e disparate, nonostante si sarebbe dovuto trattare di una semplice intervista. Un confronto molto intenso ed interessante di cui vi riportiamo l’ossatura centrale.
Ragazzi, innanzitutto benvenuti al Mary Rock. Partiamo da αω, vostro terzo lp prodotto da un, chiamiamolo, collettivo di etichette. Dove è nato, dove è stato per così dire concepito e registrato?
L’album è stato per gran parte composto in Sardegna, in un casolare in provincia di Oristano, durante l’estate del 2010. Dopo i provini svolti tra Sardegna e Bologna, ci siamo spostati in provincia di Reggio Emilia, nello studio della Igloo Audio Factory di Andrea Sologni ed Enrico Baraldi, un casolare vicino Correggio. La registrazione è andata benone, siamo riusciti a ricreare la stessa situazione di sintonia ed ispirazione vissuta in Sardegna. Gli arrangiamenti dei pezzi che sono andati a comporre il disco sono stati composti, come è nostra abitudine, collettivamente; la parte vocale è curata, invece, da Matteo.
Ascoltando il disco, la nostra sensazione è stata quella di essere trasportati in un’atmosfera di sospensione, in una dimensione onirica con forti richiami alla psichedelica. Questa è, chiamiamola, l’impressione data. Quale, invece, l’impressione da voi ricercata, ossia cosa volevate suscitare nell’ascoltatore?
Allora, una premessa è doverosa: l’ascoltatore è stato preso in considerazione soltanto nell’ultima parte della registrazione, non in Sardegna né a Bologna. In studio siamo stati attenti a non appesantire gli arrangiamenti per rendere il tutto molto armonioso, cercando di creare un concept album. Come avrete notato, le sonorità all’interno del disco sono molto varie nonostante l’impianto segua un percorso ben chiaro e preciso.
Non vogliamo chiedervi le influenze, sarebbe una domanda forse anche fastidiosa, ma ci piacerebbe se ognuno di voi ci dicesse un disco in particolare che vi viene in mente che vi ha in qualche modo ispirato ai fini di questo lavoro.
Nell’album si scorgono le influenze del post-rock, la presenza massiva delle tastiere richiama un certo modo di fare musica, ma con forti tonalità noise. Ecco, che rapporto vedete, e vivete in prima persona ovviamente, tra la musica ed il rumore propriamente inteso?
Per come la vediamo, il rumore diventa parte del pezzo: è qualcosa da suonare, l’elemento portante. Ad esempio, la traccia conclusiva del disco, Lunar 8, è composta da linee melodiche di tastiera unite a disturbi che portano il tempo e reggono tutta la struttura del pezzo.
Cosa pensate, in tutta onestà e sincerità, della tradizione e del panorama attuale della musica in Italia?
Innanzitutto, noi non siamo legati né interessati a quella forma canzone che ha da tanti anni contraddistinto il modo di fare musica in Italia. Attualmente, ciò che ci rincresce è che non vediamo moltissima ricerca: viene dato molto spazio a dei progetti quadrati e standard che non fanno assolutamente ricerca sperimentale. Ovviamente ci sono anche delle belle eccezioni, prima su tutte Cesare Basile: un cantautore, per così dire, classico ma con un grosso lavoro di ricerca e di innovazione alle spalle. C’è da dire che in Italia si vive un problema peculiare: tutta l’attenzione, sia da parte dei media, nei quali mettiamo anche le webzine, che del pubblico, va nella stessa direzione, lasciando poco spazio alla sperimentazione. E’ la grossa differenza con l’Inghilterra, dove si hanno tante scene e si da attenzione a tanta roba.
Un’ultima domanda sulla presa diretta, sulle vostre esibizioni. In che misura e come cambia la vostra attitudine tra studio e live?
Dal vivo riproponiamo degli arrangiamenti leggermente diversi. In questo tour suoniamo tutto l’ultimo album più alcuni pezzi dei primi due dischi cui siamo molto affezionati. In particolare, amiamo chiudere i live con una traccia del primo album, eleven years with Jennifer Hartman, dedicata al chitarrista degli Slint Brian McMahan.
Ragazzi, grazie mille per la piacevolissima chiacchierata. Un grosso in bocca al lupo per stasera e per il prosieguo del tour.
Di nulla, grazie a voi.

[Andrea Polidoro & Fabrizio Romano]
La copertina dell'ultimo album degli Eveline, αω