Soggezione. Guardare da pochi metri i Mercury Rev, per tutti gli appassionati di musica è come palleggiare con Federer per un giovane tennista svizzero o andare a fare una partitina con Tiger Woods per un giovane golfista. Ecco perché faceva particolarmente impressione vedere l' Estragon pieno, o vuoto dipende dalle prospettive, per metà, considerando sopratutto che tipi di concerti oggi riempiono gli stadi.
Per quel che concerne la scaletta si andava sul sicuro, eseguivano il loro capolavoro Pop del 1998: Deserter's Songs. Il senso di eseguire ordinatamente la scaletta del disco ha una doppia motivazione: da una parte, più che di musica, si tratta di una visione che ha un inizio, uno svolgimento e una fine; dall''altra rispecchia la tendenza di voler riscoprire integralmente i lavori che hanno fatto grande la musica rock. Se è una visione quella che realizza il gruppo statunitense allora tutto diventa diventa fluido, o meglio un flusso. Il basso non è funzionale al racconto e lo strumento superstite della sezione ritmica, la batteria, smarrisce pian piano la naturale funzione di tenere il tempo e concorre esattamente come gli altri alla realizzazione del flusso visionario che passa per le orecchie di chi ascolta: è una sorta di sinestesia musicale. Quello che ne risulta è un sogno fragile, la cui testimonianza più lampante è rappresentata dalla voce di Donahue, sottile, penetrante, quasi incerta, ma che trova la sua bellezza proprio nella capacità di stare sul filo del tono giusto, nelle piccole imprecisioni che rendono il racconto un po' più vero, un po' più reale.
Qualche errore da parte del fonico non rovina la nostra sensazione finale: quella di aver visto e ascoltato una parte della Storia della musica.
Fabrizio Romano
Andrea Polidoro
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