mercoledì 27 luglio 2011

Fucked Up - David comes to life







Dice che il rock è morto. E' stato detto tante di quelle volte e da esponenti tanto autorevoli che sembra un assunto difficile da contrastare. E allora in questo 2011 capita di parlare sempre più spesso di world music elettronica, techno, e ovviamente di dubstep.
Poi, verso giugno, esce un disco dei Fucked Up, ostinati nel perseguire la strada rockettara, di quella tosta e distorta dell hardcore, del punk. Ed ecco che il rock torna in tutta la sua maestà dal Canada a strizzare l' occhio all' essenza più pura di questo stile, a quella degli anni '70 e '60, a ricercare un progetto che sembrava ormai svanito, smantellato, obsoleto: l' opera rock.
Chiamatelo anche concept, se volete, ma quella che viene descritta in quest' opera magna di 78 minuti (doppio disco) è una vera e propria storia, quella di David, operaio in una fabbrica di lampadine che si innamora, che deve affrontare la morte della ragazza da lui amata ed i sospetti di chi indaga. Attraverso una lunga serie di peripezie David torna alla vita, alla sua essenza, alla ricerca dell' amore.
Il cantato di Daniel Abraham sfiora e spesso tocca il growl, tecnica utilizzata soprattutto nel death-metal, ma ne svuota completamente il senso funereo, macabro, per dare al canto un' impronta ruvida, reale, arrabbiata che al contempo sprizza gioia di vivere e amore per i personaggi del racconto ad ogni nota. E' un canto che viene dal profondo e ricerca la profonda sensibilità di chi ascolta.
Il tappeto ritmico che intessono basso e chitarra è fittissimo e vibrante quasi mosso da un timore di horror vacui, di non partecipare in ogni singolo momento alla struttura del pezzo. Le chitarre sono sferzanti e fanno la differenza nell' economia del disco perché a loro è affidato il compito di uscire da un discorso monotono, pur mantenendo l' uniformità stilistica che caratterizza l' album.
Quello che davvero impressiona è la sequenza di belle canzoni una dietro l' altra, senza momenti di calo, senza pezzi c.d. “riempitivi”, senza che l' attenzione venga meno; da Queen of Hearts a The other shoe fino a Truth I Know e One more night. Del resto i punti di riferimento, come già detto sono proprio dischi doppi di grande spessore: Zen Arcade degli Husker Du, Quadrophenia (ma anche Tommy) degli Who e, per certi versi The River di Bruce Springsteen, il tutto miscelato con la forza anarchica e dirompente del punk dei Germs.
Quello che si ascolta è un disco espressionisticamente mirato a far aprire le riserve e le indie-snobberie dell' ascoltatore, a ritrovare la voglia di raccontare storie; storie di cambiamento, di ritrovamento di punti di riferimento che sembravano perduti, di amore e di morte, di ritorno a una vita nuova.
Allora è l' ennesima dimostrazione che il rock non è morto, che c' è ancora una speranza, che può tornare padrone della scena? No. Semmai è una ulteriore dimostrazione che il rock è finito, ma che ha lasciato un lascito che ha segnato indelebilmente la storia della musica in modo profondo, fin nell' essenza. Il rock è sempre stato un modo di fare le cose, ecco, si possono e si devono cercare linguaggi nuovi ed alternativi, ma da questo modo di fare le cose non si torna più indietro, non si prescinde più.

Voto: 8,5


Fabrizio Romano

martedì 19 luglio 2011

Love the Unicorn - Back to 98

La copertina dell'ep dei Love the Unicorn
In questo mondo di Cani. Negli ultimi tempi, Roma ha catalizzato su di sé l’attenzione di addetti ai lavori, riviste, blog, nonne e zie per via di una fantomatica band ultrapop. Personalmente, c’è qualcosa che trovo gradevole in quel progetto, ma è poca roba. Per fortuna, nella capitale non c’è soltanto l’unità cinofila ma c’è anche qualcosa che vive e si muove più nelle segrete, nei sotterranei, di un patrimonio umano e artistico smisurato. Nella città eterna ci sono anche cinque giovanissimi ragazzi che hanno da poco registrato e pubblicato, in tutta autonomia, il loro primo easy play dal titolo Back to 98, ascoltabile qui. Nell’ambiente capitolino i Love the Unicorn, questo il nome della band, si son fatti conoscere con un buon numero di live, molti dei quali di spalla a gruppi già affermati e seguiti. Per quella che è la mia storia personale, non posso non pensare a questo animale mitologico in chiave anime: nel cartone che più amavo da piccino, i Cavalieri dello Zodiaco, Asher, dell’Unicorno appunto, era uno di quei personaggi anonimi di cui ci si ricorda soltanto per l’incondizionata fedeltà a Lady Isabel e per i frequenti litigi con Pegasus.

Mentre cerco di togliermi dalla testa le Dodici Case e i Cavalieri d’oro, inizio l’ascolto dell’ep, composto di tre tracce. La prima canzone, True Love Kills, mi aiuta molto a raggiungere questo risultato. Con una delicatissima atmosfera sospesa tra il pop e la psichedelia, i cinque giovincelli romani riescono a creare in me quella trance melodica di cui ho bisogno al mattino, appena sveglio. La voce ed il synth di Marco, entrambi utilizzati in maniera corretta ed elegante, senza sbavature e barocchismi, recitano la parte principale all’interno di una composizione ben assortita e studiata. Subito dopo, Back to 98 segna una decisa virata verso quel divertissement tanto caro alla stagione estiva. Qui è la batteria di Francesco a dettare i tempi, ma sono i cambi di direzione repentini delle due chitarre a donare all’insieme quella freschezza necessaria per portarmi a considerarla un’ottima colonna sonora per il caldo di questi giorni. Le influenze degli anni Novanta cui, da titolo, si vorrebbe far ritorno sono evidenti ma non mancano riferimenti più recenti e attuali: innovare prendendo spunto da quanto di buono è stato già fatto finora è un punto a favore di ragazzi poco più che ventenni. La terza, conclusiva, traccia richiama, invece, sia nella forma che nella sostanza i suoni e le melodie degli anni Ottanta: This Charming Girl ha molto più a che vedere con la celebre canzone degli Smiths che con un melodramma sudcoreano del 2005. Quello che è il mio pezzo preferito di questo breve lavoro in studio è caratterizzato da una sezione ritmica intensa e gioviale che non disdegna una chiusura in chiave New Order.

Tre pezzi non bastano a tracciare la carta d’identità di un gruppo così giovane e, sicuramente, in costante divenire. Già poco avvezzo alle classificazioni, non farò un’eccezione per questi ragazzi che sono riusciti a farsi apprezzare attingendo dal surf, dalla new wave, dal pop, dall’ambient. Un ep è, per definizione, un lavoro incompiuto che serve a far conoscere le proprie intenzioni, per me in questo caso molto buone. Talento e creatività non sembrano mancare, stiamo a vedere che succede.

[Andrea Polidoro] 

sabato 9 luglio 2011

venerdì 8 luglio 2011

mercoledì 6 luglio 2011

Karibean - Love, Tears & Spiritual Blessing

La copertina dell'ep dei Karibean, pubblicato lo scorso 5 giugno.

La mia giornata di oggi non era assolutamente cominciata nel migliore dei modi. Svegliato alle 9 e 30 dal lavorio degli operai sotto la mia finestra, memore di un lungo confronto con i miei colleghi avuto pochissime ore prima, senza nessuno che mi preparasse il caffè a casa. Ero pronto alla mia razione di, come si suol dire, sangue amaro giornaliero quando una innocua scoperta rischiara la luce di una giornata che si annunciava a tinte foschissime. Mi imbatto in una canzone dal titolo molto simbolico ed evocativo che mi prende, mi scuote, mi colpisce dritto alla testa. Conquistato da un’estasi melodica, inizio ad indagare su quelli che non stento a definire i miei Salvatori. Si tratta dei Karibean, trio marchigiano che ha da poco pubblicato un ep, registrato tra gennaio ed aprile nello studio del Loop club di Osimo, dal titolo Love, Tears & Spiritual Blessing. E’ proprio così: la musica di Enrico Carletti, Corrado Verdolini e Luca Gobbi assume nella mia fu triste mattinata i connotati di una benedizione spirituale. Passo allora all’ascolto dell’easy play, che potete scaricare gratuitamente da qui. La traccia di apertura, Xmas vibration, è in pieno stile Beach Boys, e questi ragazzi non sembrano assolutamente volerlo nascondere. La chitarra e la batteria danno il tempo all’inizio della stagione torrida, disegnando onde, surfisti, camicie a fiori e pagliette. We need the sun irrompe decisa a spazzare metaforicamente via le nubi dalla testa di qualsivoglia ascoltatore: la si vorrebbe ascoltare così tante volte che sembra essere catapultati indietro negli anni, ai tempi delle hit estive preadolescenziali. Che questa canzone abbia i connotati del successo di massa – ma di elevata qualità, sia chiaro – se ne sono accorti anche al Guardian, ma non facciamo caso al solito silenzio tutto italiano. Le tracce successive costruiscono un ponte con il 1986, anno di pubblicazione della celeberrima musicassetta C86 da parte del settimanale britannico NME: vi sono notevoli richiami a quelle atmosfere pop, a quel mood. Gregorian spring, con la sua struttura melodica perfetta ed i coretti da falò di ferragosto, conferma questa tendenza, così come le ultime due tracce che chiudono 15 minuti di inaudita freschezza. Questi ragazzi dell’East Coast italica riescono, con cinque canzoni d’impatto notevolissimo, a ricordarci che qualcosa di buono si muove sottoterra, che il vento può cambiare davvero dappertutto, per voler usare un’espressione molto in voga. Con il mix di pop e surf rock prodotto dai Karibean, nome che prende spunto dalle magliette estive della Benetton 012, l’estate 2011 apre ufficialmente i battenti. Ed io, adesso, ho proprio voglia di un Mojito.

[Andrea Polidoro]

Intervista: Eveline





Un gruppo di spessore, con una fama consolidata alle spalle, è in giro per la penisola italica a presentare l’ultimo lavoro in studio. Parliamo degli Eveline, band bolognese d’adozione che ha da poco pubblicato il proprio terzo album, αω. Tra le tappe del loro tour ce n’è anche una al Mary Rock – con il quale, ovviamente, intratteniamo un rapporto diretto e privilegiato – il 2 luglio, in un ventilato sabato sera nel Sudpontino. Che siano ragazzi molto cordiali e disponibili, oltre che musicisti straordinari, ce ne accorgiamo subito, molto prima del sound check. Accettano con entusiasmo di suonare un pezzo per noi ed inoltre ci concedono una lunga chiacchierata che va a toccare le tematiche più varie e disparate, nonostante si sarebbe dovuto trattare di una semplice intervista. Un confronto molto intenso ed interessante di cui vi riportiamo l’ossatura centrale.
Ragazzi, innanzitutto benvenuti al Mary Rock. Partiamo da αω, vostro terzo lp prodotto da un, chiamiamolo, collettivo di etichette. Dove è nato, dove è stato per così dire concepito e registrato?
L’album è stato per gran parte composto in Sardegna, in un casolare in provincia di Oristano, durante l’estate del 2010. Dopo i provini svolti tra Sardegna e Bologna, ci siamo spostati in provincia di Reggio Emilia, nello studio della Igloo Audio Factory di Andrea Sologni ed Enrico Baraldi, un casolare vicino Correggio. La registrazione è andata benone, siamo riusciti a ricreare la stessa situazione di sintonia ed ispirazione vissuta in Sardegna. Gli arrangiamenti dei pezzi che sono andati a comporre il disco sono stati composti, come è nostra abitudine, collettivamente; la parte vocale è curata, invece, da Matteo.
Ascoltando il disco, la nostra sensazione è stata quella di essere trasportati in un’atmosfera di sospensione, in una dimensione onirica con forti richiami alla psichedelica. Questa è, chiamiamola, l’impressione data. Quale, invece, l’impressione da voi ricercata, ossia cosa volevate suscitare nell’ascoltatore?
Allora, una premessa è doverosa: l’ascoltatore è stato preso in considerazione soltanto nell’ultima parte della registrazione, non in Sardegna né a Bologna. In studio siamo stati attenti a non appesantire gli arrangiamenti per rendere il tutto molto armonioso, cercando di creare un concept album. Come avrete notato, le sonorità all’interno del disco sono molto varie nonostante l’impianto segua un percorso ben chiaro e preciso.
Non vogliamo chiedervi le influenze, sarebbe una domanda forse anche fastidiosa, ma ci piacerebbe se ognuno di voi ci dicesse un disco in particolare che vi viene in mente che vi ha in qualche modo ispirato ai fini di questo lavoro.
Nell’album si scorgono le influenze del post-rock, la presenza massiva delle tastiere richiama un certo modo di fare musica, ma con forti tonalità noise. Ecco, che rapporto vedete, e vivete in prima persona ovviamente, tra la musica ed il rumore propriamente inteso?
Per come la vediamo, il rumore diventa parte del pezzo: è qualcosa da suonare, l’elemento portante. Ad esempio, la traccia conclusiva del disco, Lunar 8, è composta da linee melodiche di tastiera unite a disturbi che portano il tempo e reggono tutta la struttura del pezzo.
Cosa pensate, in tutta onestà e sincerità, della tradizione e del panorama attuale della musica in Italia?
Innanzitutto, noi non siamo legati né interessati a quella forma canzone che ha da tanti anni contraddistinto il modo di fare musica in Italia. Attualmente, ciò che ci rincresce è che non vediamo moltissima ricerca: viene dato molto spazio a dei progetti quadrati e standard che non fanno assolutamente ricerca sperimentale. Ovviamente ci sono anche delle belle eccezioni, prima su tutte Cesare Basile: un cantautore, per così dire, classico ma con un grosso lavoro di ricerca e di innovazione alle spalle. C’è da dire che in Italia si vive un problema peculiare: tutta l’attenzione, sia da parte dei media, nei quali mettiamo anche le webzine, che del pubblico, va nella stessa direzione, lasciando poco spazio alla sperimentazione. E’ la grossa differenza con l’Inghilterra, dove si hanno tante scene e si da attenzione a tanta roba.
Un’ultima domanda sulla presa diretta, sulle vostre esibizioni. In che misura e come cambia la vostra attitudine tra studio e live?
Dal vivo riproponiamo degli arrangiamenti leggermente diversi. In questo tour suoniamo tutto l’ultimo album più alcuni pezzi dei primi due dischi cui siamo molto affezionati. In particolare, amiamo chiudere i live con una traccia del primo album, eleven years with Jennifer Hartman, dedicata al chitarrista degli Slint Brian McMahan.
Ragazzi, grazie mille per la piacevolissima chiacchierata. Un grosso in bocca al lupo per stasera e per il prosieguo del tour.
Di nulla, grazie a voi.

[Andrea Polidoro & Fabrizio Romano]
La copertina dell'ultimo album degli Eveline, αω