venerdì 18 novembre 2011

Fleet Foxes @Roma (Atlantico) 17/11/2011. L' ultima frontiera del pop acustico.






Siamo nell' epoca in cui anche un cantautore come Jeans Leakman, il cui set dal è formato da voce, chitarra e batteria (stop), non rinuncia comunque ad avere al fianco un sintetizzatore, suoni campionati, a smanettare un pò con le manopole.
I Fleet Foxes, band statunitense molto apprezzata dalla critica, è una delle poche, se non l' unica nell' attuale scena pop/rock a salire sul palco con un set totalmente acustico, fatta eccezione per qualche timida chitarra elettrica che spunta quà e la in qualche pezzo. Della loro diversità hanno fatto la loro forza e in un raffinato lavoro di intrecci e sovrapposizioni hanno trovato la loro attualità.
E' per questo che vederli dal vivo lascia soddisfatti ma senza impressionare; da una parte salta subito all' orecchio che la loro bravura e il gioco di incastri non sia semplicemente dovuto ad un sapiente lavoro di studio, ma soprattutto ad una perfetta alchimia tra i componenti, dall' altra alcuni passaggi delicati e sottili virtuosismi sono destinati a perdersi tra lo strepitio della folla. Del resto in Italia, si sà, il pubblico è sempre caloroso.
Il concerto non inizia sotto una buona stella e nei primi tre/quattro pezzi i fonici fanno un pò di confusione: la batteria è preponderante ed oscura il resto degli strumenti, la voce principale è bassa ed il coro la surclassa invece di amalgamarsi in quegli impasti vocali che sono il loro marchio di fabbrica. Fortunatamente pian piano tutti trovano i giusti equilibri e subito si nota che Robin Pecknold canta infinitamente meglio ora nei live che nell' album di esordio, figurarsi rispetto all' Ep che li ha lanciati. Avere una scorta di pezzi meno intimisti e più movimentati aiuta il concerto a non avere cali, anzi, a proseguire in un crescendo, e sono proprio i pezzi come Ragged Wood a coinvolgere maggiormente ed a restituire qualcosa in più rispetto al disco.
Ma i Fleet Foxes dimostrano anche di saperci fare regalando nel bis un pezzo inedito e conservando per il gran finale quello che è il loro pezzo migliore, un vero e proprio gioiellino di armonia e ritmo: Helplessness Blues.



Fabrizio Romano



giovedì 10 novembre 2011

Vantaa di Vladislav Delay esplora mondi gelidi

                                                                                                             




C' era una volta Sasu Ripatti, un batterista che studiava per diventare un grande musicista jazz. Ad un certo punto Sasu si stacca da quel genere, sente nell' aria quella puzza di cadavere di cui già Frank Zappa parlava alla fine del millennio scorso.
E' la svolta. Il protagonista della nostra storia cambia casacca e si getta a capofitto in numerosi esperimenti. La sua personalità inizierà a sdoppiarsi e quadruplicarsi, utilizzando un discreto numero di alias a seconda della situazione: sarà Luomo se ha a che fare con la vocal house, Uustialo o Sistol se si tratta di club music, Vladilav Delay se si cimenta nella ambient/noise, unirà il suo aka con quello della moglie (Agf/Delay) per cimentarsi nella forma canzone e nel pop, infine formerà un quartetto, il Vladislav Delay Quartet, per tornare alla batteria ed al jazz/noise.
Oggi Sasu ritorna come Vladislav Delay, il suo alter-ego più autentico, come lui stesso afferma: “Vladislav Delay, fondamentalmente sono io”. Il suo nuovo disco, Vantaa, è un tuffo. Un tuffo nella sua anima, nella sua musica, ma anche nelle acque della sua Finlandia, un gioco di rimandi continui e di successioni mutevoli che collegano in modo inscindibile l' uomo alla natura, descrivono l' uno come parte del tutto, dipingono il mondo interiore dell' artista per riflettere l' ambiente esteriore in cui vive fino a perderne i contorni.
Già come fece un grande compositore con un passato da batterista batterista come Robert Wyatt nell' incipit di Sea Song, Delay utilizza già dalla seconda traccia “Henki” dei sospiri come stratagemma per portare con l' immaginazione l' ascoltatore in riva al mare, ma a differenza dell' ex Soft Machine non li usa per intessere la sezione ritmica ma li pone sullo sfondo. Il disco procede rassicurante nel suo stile ambient ribaltandone la prospettiva: da musica che si attaglia ad un certo ambiente ed è sempre diversa proprio perché ridondantemente sempre uguale, a composizioni che descrivono paesaggi e stati d' animo. Non è la prima volta che Delay si cimenta in viaggi interiori e flussi di coscienza, lo aveva già fatto nel suo capolavoro “Anima”, disco composto da una sola traccia di un' ora, Ulisse della musica elettronica. Stavolta cambia la prospettiva, è come se mondo interiore e mondo esteriore si fondessero in un liquido, rendendo la metafora del mare, che percorre tutto il disco, ancora più efficace.
Ma la visione panteistica fino a questo punto dominante viene interrotta bruscamente nel pezzo “Lauma”, vero apice dell' album, in cui materia e non materia si scontrano una progressione devastante e drammatica, dove le tensioni noise prendono pian piano il sopravvento sull' incalzare continuo del beat, deflagrando nell'ultimo minuto.
A questo punto del disco le tensioni rumoristiche diventano protagoniste, turbano l' equilibrio della composizione, rendono plastica e viva la struttura armonica.
Un tuffo, si diceva, con cui si sprofonda nel mondo di Sasu Ripatti e se ne riemerge placidamente scossi.

Voto: 7,5


Fabrizio Romano

Potete asoltare l' album in streaming qui

lunedì 7 novembre 2011

Lulu: Metallica a lezione da Lou Reed sceneggiatore.

                                                                             




Alla notizia che Lou Reed era pronto a fare uscire il suo nuovo album scritto e suonato i Metallica ho pensato: "perfetto, ci siamo giocati anche lui". Si perché l' idea che oramai la vena creativa di Lou,  alla soglia dei settanta anni, si fosse esaurita è passata per la mente di tutti e che il coinvolgimento di una band finita come i Metallica fosse un' operazione pubblicitaria fine a sé stessa lo si dava anche per scontato. Ascoltando i primi quindici secondi di ogni traccia usciti in anteprima in streaming il palmo della mia mano raggiungeva velocemente la mia faccia in un misto tra incredulità e compassione per quella che mi appariva come la tamarrata dell' anno, roba da fare imbarazzare anche quegli aitanti giovani che ballalano promiscuamente su MTV (beati loro).
Ecco, la lezione numero uno che impartisce questo disco è: mai sottovalutare Lou Reed.
La lezione numero due di questo disco invece è: ti aspetti un disco di Lou Reed e Metallica? Illuso! Ti ritrovi l' opera teatrale di Reed più compiuta dai tempi di Berlin (sarà un caso se la storia inizia sotto la porta di Brandeburgo?) e i Metallica che suonano sullo sfondo.
Insomma, questo disco bisogna prenderlo per quello che è: un' opera in cui Lou Reed si cimenta nella sceneggiatura, più che nella composizione, in cui la maschera ti invita a prendere posto nel loggione e assistere allo show.
Gli indizi per arrivare alla conclusione che questo disco ha a che fare più col teatro che con la musica sono troppi per non essere colti:
  • L' idea originale nasce dalla trasposizione teatrale di Robert Wilson del personaggio di Lulu, femme fatale concepita dalla mente di Frank Wedekind
  • Reed si avvicina al progetto concependo una colonna sonora da portare a teatro, ma poi cambia idea e pensa ad un disco
  • Lou non canta (quel poco cantato è affidato a Hetfield), recita e usa lo spokenword in modo sistematico come, a memoria, non aveva mai fatto.
  • L' impressione è quella di un' opera recitata dall' ex Velevet Underground con i Metallica alla colonna sonora.
  • La lunga durata del disco, quasi pari a quello di una piéce.
  • Siamo oltre il concept; è una storia che ha un' introduzione, uno svolgimento e una fine, una narrazione compiuta e completa come capita in pochi dischi di cantautorato, figurarsi in altri.
Se prendiamo per buona l' introduzione la musica rimane sullo sfondo e non fà altro che aumentare il pathos e l' atmosfera drammaticamente dark legata al racconto, senza grandi pretese ulteriori. Và detto che la ragione per cui provo antipatia per gran parte del metal è che la bravura degli interpreti rimane fine a sé stessa. Proprio quello che non capita in questo disco.
I testi di Reed fanno l' opera e la qualità della scrittura è impressionante per violenta raffinatezza e per disturbata eleganza. Lulu pian pian piano si trasforma in Lou, che racconta con sincerità il suo rapporto con i suoi affetti, da sempre turbato, ambiguo, oscuro, feroce. 
Se é vero che ogni opera di uno scrittore è un pò autobiografica, forse, questa, per Reed scrittore, lo è un filo più delle altre "Desidero così tanto farti del male. Sposami. Ti voglio come moglie." (frustration) Illusione e disillusione, soddisfazioni e fatica, affidamenti e tradimenti di un Signore che ha sempre voluto scrivere e raccontare delle passioni e delle vite degli altri come nessun altro sà fare, e che alla fine si arrende a ciò che non sà capire: "Lascia che la luce delle stelle coli giù Come una candela in un beccuccio Lascia che lo stoppino si consumi e cada Lascia che la luce stellare s’irradi Perché mi tradisci? Perché mi  tradisco? Perché mi tradisci? Perché mi disprezzo?Perché mando a cagare i miei sogni? È perché è così che va".(Cheat on Me"


Fabrizio Romano