giovedì 29 marzo 2012

Le mutazioni del jazz: Portico Quartet - Portico Quartet (2012)



A volte i suoni e gli umori di un disco che si ascolta cominciano a svelarsi già dall' etichetta che lo produce. L' omonimo terzo album dei Portorico Quartet esce per la Real World, di proprietà del signor Peter Gabriel. Si potrebbe cominciare a pensare a molteplici influenze di estrazioni diverse e distanti tra loro, ad una grande attenzione per le culture non occidentali, al tentativo disperato di far suonare qualcosa nuovo come unico modo per riscoprire sensazioni ed umori primordiali, profondi, nascosti. Ecco,  non si sarebbe di certo sulla cattiva strada.
Se fino ad Isla (2009) la band londinese ricercava nella musica elettronica l' escamotage per superare il loro impianto classicamente jazz, con questo loro ultimo lavoro la fusione è completa, l' avvicinamento all' ambient deciso, l' approdo a sonorità inesplorate compiuto.
Uno dei principali errori che si può fare ascoltando un disco del genere è catalogarlo rigidamente in un genere. Cos' è, post-rock sperimentale? Nu-chamber-jazz elettronico? O forse è meglio minimal-ambient? E' una catalogazione piuttosto sterile non tanto perché una volta che ci siamo messi d' accordo sulla collocazione stilistica non abbiamo aggiunto niente, quanto perché è un lavoro fondamentalmente libero ed aperto a tutte le influenze possibili. A volte dall' anarchia intellettuale però possono derivare dischi confusi, barocchi, leggermente stucchevoli. Non è quel che accade in Portico Quartet. Certo il tema dei brani si dissolve lasciando spazio a loop e soluzioni di respiro ambient/avanguardistico (penso all' ottimo Tim Hecker), gli assoli e l' improvvisazione sono ridotti all' osso e non risalta alcuna particolare capacità tecnica. Ma se la tecnica non è niente di più che un' arma che serve semplicemente a sviluppare le proprie idee (“Technique is a weapon to do whatever must be done” Cecil Taylor) allora possiamo pensare ad un nuovo modo di concepire il mondo che gira intorno al jazz. Non è più l' improvvisazione sulla tecnica a fare la differenza, ma semplicemente la forza con cui ci si esprime. Ed è difficile non rimanere affascinati dalla grande complessità e varietà delle armonie, non essere toccati dall' eleganza e dalla misura compositiva, non sognare ad occhi aperti sprofondando nel susseguirsi di ripetizioni e sovraincisioni che sembrano non avere mai fine
Più che una ricerca introspettiva questo album ci prende per mano e ci conduce verso mondi e paesaggi costruiti, dipinti ed architettati dal quartetto. Costruzioni a dir la verità splendide ed eteree quanto fragili ed illusorie, destinate a scomporsi e cadere travolte da tensioni rumoristiche e scomposizioni sonore. Forse una presa di coscienza del fatto che la musica fatica ad essere lo specchio o anche più semplicemente la rappresentazione della realtà, e che la sua missione in questo senso è destinata a fallire, perché come diceva uno che di belle storie se ne intendeva come Fabrizio De André < Io tutte le sere, quando finisco il concerto, desidererei rivolgermi alla gente e dire loro "tutto quello che avete visto è assolutamente falso">. 
Libero, fluido, toccate, elettronico, aperto. Di dischi come questo se ne sente sempre il bisogno: il jazz riveduto e corretto ai tempi della terza olimpiade londinese.
 Lo diamo un voto? Va bene: 8





Fabrizio Romano