A volte i suoni e gli umori di un disco
che si ascolta cominciano a svelarsi già dall' etichetta che lo
produce. L' omonimo terzo album dei Portorico Quartet esce per la
Real World, di proprietà del signor Peter Gabriel. Si potrebbe
cominciare a pensare a molteplici influenze di estrazioni diverse e
distanti tra loro, ad una grande attenzione per le culture non
occidentali, al tentativo disperato di far suonare qualcosa nuovo
come unico modo per riscoprire sensazioni ed umori primordiali,
profondi, nascosti. Ecco, non si sarebbe di certo
sulla cattiva strada.
Se fino ad Isla (2009) la band londinese ricercava nella musica elettronica l' escamotage per superare il loro impianto classicamente jazz, con questo loro ultimo lavoro la fusione è completa, l' avvicinamento all' ambient deciso, l' approdo a sonorità inesplorate compiuto.
Se fino ad Isla (2009) la band londinese ricercava nella musica elettronica l' escamotage per superare il loro impianto classicamente jazz, con questo loro ultimo lavoro la fusione è completa, l' avvicinamento all' ambient deciso, l' approdo a sonorità inesplorate compiuto.
Uno dei principali errori che si può
fare ascoltando un disco del genere è catalogarlo rigidamente in un
genere. Cos' è, post-rock sperimentale? Nu-chamber-jazz elettronico?
O forse è meglio minimal-ambient? E' una catalogazione piuttosto
sterile non tanto perché una volta che ci siamo messi d' accordo
sulla collocazione stilistica non abbiamo aggiunto niente, quanto
perché è un lavoro fondamentalmente libero ed aperto a tutte le
influenze possibili. A volte dall' anarchia intellettuale però
possono derivare dischi confusi, barocchi, leggermente stucchevoli.
Non è quel che accade in Portico Quartet. Certo il tema dei brani si
dissolve lasciando spazio a loop e soluzioni di respiro
ambient/avanguardistico (penso all' ottimo Tim Hecker), gli assoli e
l' improvvisazione sono ridotti all' osso e non risalta alcuna
particolare capacità tecnica. Ma se la tecnica non è niente di più
che un' arma che serve semplicemente a sviluppare le proprie idee
(“Technique is a weapon to do whatever must be done” Cecil
Taylor) allora possiamo pensare ad un nuovo modo di concepire il
mondo che gira intorno al jazz. Non è più l' improvvisazione sulla
tecnica a fare la differenza, ma semplicemente la forza con cui ci si
esprime. Ed è difficile non rimanere affascinati dalla grande
complessità e varietà delle armonie, non essere toccati dall'
eleganza e dalla misura compositiva, non sognare ad occhi aperti
sprofondando nel susseguirsi di ripetizioni e sovraincisioni che sembrano non avere mai fine.
Più che una ricerca introspettiva questo album ci prende per mano e ci conduce verso mondi e paesaggi costruiti, dipinti ed architettati dal quartetto. Costruzioni a dir la verità splendide ed eteree quanto fragili ed illusorie, destinate a scomporsi e cadere travolte da tensioni rumoristiche e scomposizioni sonore. Forse una presa di coscienza del fatto che la musica fatica ad essere lo specchio o anche più semplicemente la rappresentazione della realtà, e che la sua missione in questo senso è destinata a fallire, perché come diceva uno che di belle storie se ne intendeva come Fabrizio De André < Io tutte le sere, quando finisco il concerto, desidererei rivolgermi alla gente e dire loro "tutto quello che avete visto è assolutamente falso">.
Libero, fluido, toccate, elettronico, aperto. Di dischi come questo se ne sente sempre il bisogno: il jazz riveduto e corretto ai tempi della terza olimpiade londinese.
Lo diamo un voto? Va bene: 8
Più che una ricerca introspettiva questo album ci prende per mano e ci conduce verso mondi e paesaggi costruiti, dipinti ed architettati dal quartetto. Costruzioni a dir la verità splendide ed eteree quanto fragili ed illusorie, destinate a scomporsi e cadere travolte da tensioni rumoristiche e scomposizioni sonore. Forse una presa di coscienza del fatto che la musica fatica ad essere lo specchio o anche più semplicemente la rappresentazione della realtà, e che la sua missione in questo senso è destinata a fallire, perché come diceva uno che di belle storie se ne intendeva come Fabrizio De André < Io tutte le sere, quando finisco il concerto, desidererei rivolgermi alla gente e dire loro "tutto quello che avete visto è assolutamente falso">.
Libero, fluido, toccate, elettronico, aperto. Di dischi come questo se ne sente sempre il bisogno: il jazz riveduto e corretto ai tempi della terza olimpiade londinese.
Lo diamo un voto? Va bene: 8
azzarderei anche un nove.... ma nn vorrei che poi i ragazzi si montassero troppo la testa... cmq bravi e bella la recensione...
RispondiEliminaBella recensione, di fatto però la musica di questi signori è progressive rock o fusion se mi permetti la terminologia un poco retrò. In questo senso somigliano molto a dischi come Khmer di Molvaer, Blues dream di Frisell o In praise of dreams di Garbarek, anche questi relativamente recenti. Il classicone di riferimento per musica minimal jazzata è ovviamente In a silent way di Miles Davis.
RispondiEliminaPotrebbero garbarti anche questi.
Decisamente più impegnato è il connubio fra minimal e jazz del disco di Metheny "The way up" del 2005.
Grazie molte ascoltiepentiti, conosco quel disco di Metheny e chiaramente mi piace molto anche se trovo che sia un disco meno votato all' ambient rispetto a questo, come sottolinei giustamente tu, più jazz.
RispondiEliminaAccetto di buon grado tutti i tuoi consigli.
Fabrizio
Chi segue i miei consigli fa una brutta fine ahhahaha :)
RispondiEliminaTony