Ci sono ambiti in cui la musica
difficilmente può prescindere dal contatto diretto dell' ascoltatore
con l' artista, esibizioni dal vivo alternative ai concerti. E' la
musica che sbarca in teatro, che con esso si mescola, in cui può
rientrare una parte recitata. C' è chi sul palco ci sale per fare
qualcosa di diverso dal solito, per sperimentare ,ovvero andare alla
ricerca dei propri limiti e, una volta individuati, cercare di fare
un passettino oltre. A portare in scena le proprie idee lunedì 30
Aprile presso il Teatro Studio Uno di Roma è stato Francesco
Leineri, giovane musicista dalle origini palermitane oggi
trasferitosi nella Capitale studente al conservatorio di Santa
Cecilia. Quello che porta in scena è uno spettacolo dallo
svolgimento lineare, il racconto della nascita, crescita e morte di
un ascoltatore, di come egli si rapporta nella sua vita con la musica
e con il rumore e della relazione che c' è tra queste due
manifestazioni del suono. Il suo decoupage (come ama chiamarlo) è
figlio delle grandi rivoluzioni della musica degli anni zero, di
barriere che cadono, di limiti oltrepassati, di piani espressivi che
si influenzano e si confondono a vicenda. Non solo non esistono più
differenze tra musica classica, rock, ambient ed elettronica, non
solo i diversi generi si mescolano tra loro fino a perdere la propria
connotazione distintiva ma i suoni che stanno sullo sfondo, creati
attraverso strumentazioni elettroniche possono a tratti diventare i
veri protagonisti. Il melange di suoni che ne viene fuori parla di
noi, del nostro approccio al suono e all' ascolto. Sebbene il suo
tour inizierà ad Ottobre in occasione della prima ho avuto il
piacere di fare due chiacchiere con lui.
Fabrizio:
Francesco, la prima cosa che ho notato
in sala è stata la reazione molto diversa da parte di ogni
spettatore a quello che accadeva sul palco, te lo aspettavi?
Francesco Leineri:
Beh, questa era una prima: di per sé
il debutto è sempre un momento molto difficile, non sai mai come
andrà o quali potrebbero essere le tue reazioni o quelle di chi ti
ascolta. In passato (in particolar modo al debutto di “Tirez sur le
pianiste”) la prima non ha quasi mai avuto un totale buon riscontro
da parte del pubblico: nel caso di Brusìo io stesso sono stato
sorpreso dal buon riscontro della sala, dal fatto che ogni spettatore
a suo modo abbia reagito sempre in maniera del tutto estremamente
intima e personale. Mi ha fatto piacere anche perché ho riscontrato
apprezzamenti nei confronti della “confezione” dell' esibizione:
penso sempre alla reazione dell' ascoltatore, faccio attenzione alla
durata, alla modalità nella quale mi esprimo, al fatto che ci sia un
filo ben preciso da seguire e ad altri aspetti correlati. Avere
ricevuto apprezzamenti proprio su questi aspetti è una cosa che mi
ha riempito di gioia e mi ha fatto capire che forse il lavoro e i
sacrifici non sono stati vani.
Fabrizio:
Nel “decoupage” che hai portato in
scena c' è un rapporto molto stretto tra musica e rumore, non a caso
s' intitola “Brusio”. C' è un confine tra musica, suono e
rumore?
Francesco:
E' molto difficile da individuare, per
me. In scena ho cercato di interrogarmi proprio su questo, ma è una
domanda che per il momento non ha risposta e che per l’appunto io
stesso ho scelto di lasciare aperta. Mi piacerebbe che ognuno, ad
esibizione conclusa, potesse trovare la propria risposta dentro di
sé.
Fabrizio:
Se è difficile districarsi tra questi
concetti apparentemente molto distinti e distanti tra loro a maggior
ragione cadono le barriere tra i generi. Sbaglio?
Francesco:
Assolutamente, i generi – o meglio,
le etichette - non esistono, quando si tratta di catalogazioni
perverse. In Brusìo c’è il filo rosso dei miei pezzi per
pianoforte, che però mi permette di passare da suonare un pezzo di
Eno (By this river, n.d.r) ad improvvisare profanamente su musiche di
Ligeti o incisi di Bach. L' eccessiva settorializzazione
probabilmente è stata alla base del disinnamoramento del pubblico
verso alcuni generi. La musica classica, purtroppo, non poteva che
rimetterci.
Fabrizio:
Già, la classica, devo dire che mi fa
una certa impressione vedere come le date più importanti e più
numerose di molti teatri riguardino musica dell' 800. Non sarebbe
necessario valorizzare qualcosa di nuovo?
Francesco:
Le musiche dei grandi compositori del
passato sono importantissime, è studiando quelle che si può
affinare al meglio il proprio potere sulla partitura e acuire un
maggior senso critico: è a mio modesto parere la migliore scuola che
oggi si possa desiderare. D' altro canto, al tempo stesso, è
necessario fare musica del terzo millennio per ascoltatori del terzo
millennio. Il problema è capire quale sia. Di certo l’ultima cosa
da fare è paralizzarsi, come qualche collega compositore che scrive
pochissimo. Sarà timore nei confronti dei giganti del passato? Come
forse è da evitare il rischio per il quale si arrivi al “successo”
scrivendo composizioni eleganti ma prive di carattere e senza idee?
La tentazione di ripetere vecchi schemi del passato in molti casi può
essere fortissima, ma per scrivere qualcosa di nuovo bisogna mettersi
in gioco fino in fondo, soprattutto con amore e sincerità, senza
pensare al compiacere necessariamente chi ci ascolta.
Fabrizio:
Ma prima hai detto che all' ascoltatore
ci pensi eccome!
Francesco:
Sono due piani distinti. Quando
compongo non penso ad altro se non a cercare di esprimere me stesso
con tutta la sincerità possibile, al meglio che posso: è questa la
mia più grande prerogativa. Quando poi penso al confezionamento
dell' opera, all' impacchettamento, alla distribuzione, allora mi
preoccupo soprattutto di chi ascolta, ma il contenuto quasi sempre
non si tocca.
Fabrizio:
Credo che per non riciclare schemi del
passato bisogna conoscere la musica che ci circonda. Quali sono i
dischi di musica leggera degli ultimi dieci anni che ti hanno
influenzato o che ti sono piaciuti?
Francesco:
Ma mi fai un sacco di domande
difficilissime! Oddio…mi è piaciuto un sacco l’ultimo di Tom
Waits. O l’ultimo degli Air. Ultimamente mi sono divertito anche ad
ascoltare molti di quegli autori, quasi tutti giovanissimi, di questa
scena che la critica ama definire “neoclassica”: Nils Frahm,
Peter Broderick, Dustin ‘O Halloran. Fra gli ultimi dischi per
pianoforte usciti da poco che mi hanno influenzato parecchio c’è
lo splendido ultimo lavoro live di Keith Jarrett, inciso a Rio,
l’ultimo Craig Taborn, o Vijay Iyer. Andando un po’ più indietro
nel tempo un capolavoro assoluto che mi ha paralizzato all’ascolto
è il testamento-live ad Amburgo del trio di Svensson, o Leucocyte
stesso. L’ultimo di Bugge Wesseltoft. Includo nella lista anche il
90% delle produzioni nel catalogo della ECM. Purtroppo riesco ad
ascoltare con poca convinzione i cantautori della nuova scena
italiana, eccezion fatta per Nicolò Carnesi e Giovanni
Block. Ma questa è un’altra storia. Insomma, potremmo parlare per
ore…
Fabrizio:
Ultima domanda, i tuoi progetti per il
futuro.
Francesco:
Scrivere, scrivere, scrivere.
Parafrasando Stravinskij, l’unico dovere che abbiamo nei confronti
della musica è quello di inventarla.
La pièce teatrale “Petit”,
con le mie musiche originali per pianoforte, clarinetto, violoncello
e contrabbasso, è andata in scena recentissimamente al Teatro
Trastevere di Roma. L’eccezionale duo di Domenco Turi al pianoforte
e Massimo Munari al clarinetto ha deciso di interpretare un mio pezzo
per un concerto alla Basilica di Santa Cecilia di Roma che si è
tenuto proprio ieri. Ho un progetto in cantiere con l’attore
Giuseppe Mortelliti del quale preferisco non parlare, per il
momento…ce ne saranno delle belle. Continuerò a collaborare con
altri musicisti, ma nell’imminente mi impegnerò perlopiù a
comporre.
Fabrizio Romano
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