Un gruppo di spessore, con una fama consolidata alle spalle, è in giro per la penisola italica a presentare l’ultimo lavoro in studio. Parliamo degli Eveline, band bolognese d’adozione che ha da poco pubblicato il proprio terzo album, αω. Tra le tappe del loro tour ce n’è anche una al Mary Rock – con il quale, ovviamente, intratteniamo un rapporto diretto e privilegiato – il 2 luglio, in un ventilato sabato sera nel Sudpontino. Che siano ragazzi molto cordiali e disponibili, oltre che musicisti straordinari, ce ne accorgiamo subito, molto prima del sound check. Accettano con entusiasmo di suonare un pezzo per noi ed inoltre ci concedono una lunga chiacchierata che va a toccare le tematiche più varie e disparate, nonostante si sarebbe dovuto trattare di una semplice intervista. Un confronto molto intenso ed interessante di cui vi riportiamo l’ossatura centrale.
Ragazzi, innanzitutto benvenuti al Mary Rock. Partiamo da αω, vostro terzo lp prodotto da un, chiamiamolo, collettivo di etichette. Dove è nato, dove è stato per così dire concepito e registrato?
L’album è stato per gran parte composto in Sardegna, in un casolare in provincia di Oristano, durante l’estate del 2010. Dopo i provini svolti tra Sardegna e Bologna, ci siamo spostati in provincia di Reggio Emilia, nello studio della Igloo Audio Factory di Andrea Sologni ed Enrico Baraldi, un casolare vicino Correggio. La registrazione è andata benone, siamo riusciti a ricreare la stessa situazione di sintonia ed ispirazione vissuta in Sardegna. Gli arrangiamenti dei pezzi che sono andati a comporre il disco sono stati composti, come è nostra abitudine, collettivamente; la parte vocale è curata, invece, da Matteo.
Ascoltando il disco, la nostra sensazione è stata quella di essere trasportati in un’atmosfera di sospensione, in una dimensione onirica con forti richiami alla psichedelica. Questa è, chiamiamola, l’impressione data. Quale, invece, l’impressione da voi ricercata, ossia cosa volevate suscitare nell’ascoltatore?
Allora, una premessa è doverosa: l’ascoltatore è stato preso in considerazione soltanto nell’ultima parte della registrazione, non in Sardegna né a Bologna. In studio siamo stati attenti a non appesantire gli arrangiamenti per rendere il tutto molto armonioso, cercando di creare un concept album. Come avrete notato, le sonorità all’interno del disco sono molto varie nonostante l’impianto segua un percorso ben chiaro e preciso.
Non vogliamo chiedervi le influenze, sarebbe una domanda forse anche fastidiosa, ma ci piacerebbe se ognuno di voi ci dicesse un disco in particolare che vi viene in mente che vi ha in qualche modo ispirato ai fini di questo lavoro.
g.c. : Woven Hand - Ten Stones
l.x. : Oneida - Rated O
Nell’album si scorgono le influenze del post-rock, la presenza massiva delle tastiere richiama un certo modo di fare musica, ma con forti tonalità noise. Ecco, che rapporto vedete, e vivete in prima persona ovviamente, tra la musica ed il rumore propriamente inteso?
Per come la vediamo, il rumore diventa parte del pezzo: è qualcosa da suonare, l’elemento portante. Ad esempio, la traccia conclusiva del disco, Lunar 8, è composta da linee melodiche di tastiera unite a disturbi che portano il tempo e reggono tutta la struttura del pezzo.
Cosa pensate, in tutta onestà e sincerità, della tradizione e del panorama attuale della musica in Italia?
Innanzitutto, noi non siamo legati né interessati a quella forma canzone che ha da tanti anni contraddistinto il modo di fare musica in Italia. Attualmente, ciò che ci rincresce è che non vediamo moltissima ricerca: viene dato molto spazio a dei progetti quadrati e standard che non fanno assolutamente ricerca sperimentale. Ovviamente ci sono anche delle belle eccezioni, prima su tutte Cesare Basile: un cantautore, per così dire, classico ma con un grosso lavoro di ricerca e di innovazione alle spalle. C’è da dire che in Italia si vive un problema peculiare: tutta l’attenzione, sia da parte dei media, nei quali mettiamo anche le webzine, che del pubblico, va nella stessa direzione, lasciando poco spazio alla sperimentazione. E’ la grossa differenza con l’Inghilterra, dove si hanno tante scene e si da attenzione a tanta roba.
Un’ultima domanda sulla presa diretta, sulle vostre esibizioni. In che misura e come cambia la vostra attitudine tra studio e live?
Dal vivo riproponiamo degli arrangiamenti leggermente diversi. In questo tour suoniamo tutto l’ultimo album più alcuni pezzi dei primi due dischi cui siamo molto affezionati. In particolare, amiamo chiudere i live con una traccia del primo album, eleven years with Jennifer Hartman, dedicata al chitarrista degli Slint Brian McMahan.
Ragazzi, grazie mille per la piacevolissima chiacchierata. Un grosso in bocca al lupo per stasera e per il prosieguo del tour.
Di nulla, grazie a voi.
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