domenica 25 dicembre 2011

CLASSIFICA DEI MIGLIORI ALBUM DEL 2011

1. James Blake - James Blake

 Che ad aggiudicarsi la prima piazza sia un ragazzo di ventitre anni non deve stupire: il 2011 ha rappresentato l' anno delle rivoluzioni sociali guidate dai più giovani. James Blake, cresciuto nel sobborgo più a nord di Londra è risultato senz' altro la rivelazione dell' anno grazie alla sapiente commistione tra dubstep ed elettronica e ad una voce intima e delicata. Un' opera prima di altissimo valore, con l' augurio di un futuro ancora più brillante [Andrea Polidoro]








2. Bon Iver - Bon Iver


Si sa che, quando l'album di debutto riceve a giusto titolo moltissimi consensi, l'artista in questione è atteso dalla critica col coltello tra i denti. Bon Iver ha richiesto più tempo per essere compreso, recepito, interiorizzato, ma ci ha messo in seria difficoltà per l'assegnazione della palma di miglior disco dell'anno. Justin Vernon è un musicista straordinario che dal vivo, ne possiamo parlare a ragion veduta avendo assistito ad un suo concerto a Parigi, mostra tutta la sua classe ed eleganza. Un artista completo, membro di una nuova leva che non crediamo ci abbandonerà presto. [Andrea Polidoro]



3. Fucked Up - David Comes To Life

Se cercate la migliore band hardocre in circolazione l' avete già trovata. David Comes To Life è il capolavoro della band canadese, un concept album che mescola vivacità, potenza ed ironia. Un disco fortemente legato al rock, a forti schitarrate sovrapposte in un raffinato gioco di tessitura dei pezzi ed al cantato graffiante  e viscerale di Damian Abraham. E poi, come se non bastasse, le canzoni sono una più bella dell' altra. [Fabrizio Romano]








4. Tom Waits - Bad As Me

Quando è stata annunciata l'uscita del diciassettesimo album in studio di Tom Waits, i più hanno storto il naso. Ancora lui, si sono chiesti. L'immarcescibile Tom ha messo tutti a tacere con un disco d'impatto, straordinario per composizioni e liriche, che in annate di magra avrebbe potuto competere per i vertici.  L'ennesimo coniglio estratto da un inesauribile cilindro. [Andrea Polidoro]









5. Oneohtrix Point Never - Replica

Conferma che questo non è l' anno delle grandi melodie. Non che ce ne dispiaccia particolarmente, ma le strade imboccate da Daniel Lopatin sono quelle del minimalismo, della sovraincisione, della ripetizione, della decontestualizzazione. Ne viene fuori un album che non rientra certo nella categoria dell' easy listening, ma che trova la sua forza e la sua schiettezza nella continua variazione di ritmi e linee armoniche imprevedibili e spiazzanti. Per poter apprezzare un' opera del genere bisogna prima essere pronti a mettere in discussione ciò che ci si aspetta da un disco e saper giocare con la propria concezione di musica. Siate pronti a tutto. [F.R.]





6. Arrington De Dionyso - Suara Naga

Nel 1969 usciva Trout Mask Replica di Captain Beefheart, semplicemente il primo capolavoro "inascoltabile" della storia. De Dionisyo conosce bene la lezione del Capitano e si diverte a destrutturare il rock e poi ricomporlo unendovi elementi antichi e ancestrali; in questo caso avvalendosi della musica tradizionale indonesiana in una ricerca "monkiana" della primigeneità dell' ascolto. Un' opera in bilico tra Oriente ed Occidente, tra il cantato indonesiano (con cui porta al limite le proprie capacità canore) e strumenti tipici del rock, tra mestiere e misticismo, tra solidi edifici e capanne di fango. [F.R.]






7. Danger Mouse & Daniele Luppi - Rome


Più che un concept album, una pièce teatrale. Burton e Luppi, coadiuvati da Jack White e Norah Jones, traslano la Città eterna su un pentagramma, dipingendone luci, colori, stagioni, attimi. La tradizione morriconiana ha trovato degni e riconoscenti eredi. Da ascoltare tutto d'un fiato. [Andrea Polidoro]









8. Anna Calvi - Anna Calvi

Classe come se piovesse. Lasciate perdere il brutto album dei Coldplay, è questo il miglior disco pop/rock dell' anno. Scrittura precisa e raffinata, bel canto di grande impatto, canzoni moderne che strizzano l' occhio alla tradizione. C' è voluto poco prima che l' olimpo del rock si accorgesse di lei. L' album di esordio di Anna Calvi è un' opera che stimola visioni oniriche dark (a.k.a. brutti sogni?) facendoti sentire al caldo sotto il tepore delle coperte. [F.R.]







9. PJ Harvey - Let England Shake


Il 2011 da protagonista di Lady Polly Jean: Let England Shake è l'altro concept album che entra di diritto e di forza nella nostra classifica. Tantissime le influenze extra-musicali dichiarate dalla stessa autrice, dalla poesia di T.S. Eliot alla pittura di Goya e Dalì passando per eventi storici significativi come la battaglia di Gallipoli. La volontà di scuotere un popolo addormentato ma fiero ed orgoglioso. Britishness. [Andrea Polidoro]







10. Tim Hecker - Ravedeath, 1972

Ricordare il passato attraverso una musica nuova e attuale. Ravedeath, 1972 è fondamentalmente un disco di elettronica, anche se nelle partiture ricorda una composizione per orchestra, giocato tra visioni nebulose (fog) e afflati noise, momenti visionari e momenti lirico-descrittivi. Malinconicamente moderno. [F.R.]
















Menzioni Speciali per Opere Prime pubblicate in Italia:


Bancale - Frontiera






Junkfood - Transience










Le Classifiche dei redattori:


Andrea Polidoro

1. James Blake - James Blake
2. Bon Iver - Bon Iver
3. Tom Waits - Bad As Me
4. Danger Mouse & Daniele Luppi - Rome
5. Pj Harvey - Let England Shake
6. Tinariwen - Tassili
7. Fucked Up - David Comes To Life
8. Verdena - Wow
9. tUnE yArDs - W H O K I L L
10. Oneohtrix Point Never - Replica



Fabrizio Romano

1. James Blake - James Blake
2. Fucked Up - David Comes to Life
3. Bon Iver - Bon Iver
4. Arrington De Dionysio - Suara Naga
5. Anna Calvi - Anna Calvi
6. Tim Hecker - Ravedeath, 1972
7. Ambrose Akinmusire - When The Heart Emerges Glistening
8. Crystal Stilts - In Love With OBlivion
9. Valdislav Delay - Vantaa
10. Oneohtrix Point Never - Replica



venerdì 18 novembre 2011

Fleet Foxes @Roma (Atlantico) 17/11/2011. L' ultima frontiera del pop acustico.






Siamo nell' epoca in cui anche un cantautore come Jeans Leakman, il cui set dal è formato da voce, chitarra e batteria (stop), non rinuncia comunque ad avere al fianco un sintetizzatore, suoni campionati, a smanettare un pò con le manopole.
I Fleet Foxes, band statunitense molto apprezzata dalla critica, è una delle poche, se non l' unica nell' attuale scena pop/rock a salire sul palco con un set totalmente acustico, fatta eccezione per qualche timida chitarra elettrica che spunta quà e la in qualche pezzo. Della loro diversità hanno fatto la loro forza e in un raffinato lavoro di intrecci e sovrapposizioni hanno trovato la loro attualità.
E' per questo che vederli dal vivo lascia soddisfatti ma senza impressionare; da una parte salta subito all' orecchio che la loro bravura e il gioco di incastri non sia semplicemente dovuto ad un sapiente lavoro di studio, ma soprattutto ad una perfetta alchimia tra i componenti, dall' altra alcuni passaggi delicati e sottili virtuosismi sono destinati a perdersi tra lo strepitio della folla. Del resto in Italia, si sà, il pubblico è sempre caloroso.
Il concerto non inizia sotto una buona stella e nei primi tre/quattro pezzi i fonici fanno un pò di confusione: la batteria è preponderante ed oscura il resto degli strumenti, la voce principale è bassa ed il coro la surclassa invece di amalgamarsi in quegli impasti vocali che sono il loro marchio di fabbrica. Fortunatamente pian piano tutti trovano i giusti equilibri e subito si nota che Robin Pecknold canta infinitamente meglio ora nei live che nell' album di esordio, figurarsi rispetto all' Ep che li ha lanciati. Avere una scorta di pezzi meno intimisti e più movimentati aiuta il concerto a non avere cali, anzi, a proseguire in un crescendo, e sono proprio i pezzi come Ragged Wood a coinvolgere maggiormente ed a restituire qualcosa in più rispetto al disco.
Ma i Fleet Foxes dimostrano anche di saperci fare regalando nel bis un pezzo inedito e conservando per il gran finale quello che è il loro pezzo migliore, un vero e proprio gioiellino di armonia e ritmo: Helplessness Blues.



Fabrizio Romano



giovedì 10 novembre 2011

Vantaa di Vladislav Delay esplora mondi gelidi

                                                                                                             




C' era una volta Sasu Ripatti, un batterista che studiava per diventare un grande musicista jazz. Ad un certo punto Sasu si stacca da quel genere, sente nell' aria quella puzza di cadavere di cui già Frank Zappa parlava alla fine del millennio scorso.
E' la svolta. Il protagonista della nostra storia cambia casacca e si getta a capofitto in numerosi esperimenti. La sua personalità inizierà a sdoppiarsi e quadruplicarsi, utilizzando un discreto numero di alias a seconda della situazione: sarà Luomo se ha a che fare con la vocal house, Uustialo o Sistol se si tratta di club music, Vladilav Delay se si cimenta nella ambient/noise, unirà il suo aka con quello della moglie (Agf/Delay) per cimentarsi nella forma canzone e nel pop, infine formerà un quartetto, il Vladislav Delay Quartet, per tornare alla batteria ed al jazz/noise.
Oggi Sasu ritorna come Vladislav Delay, il suo alter-ego più autentico, come lui stesso afferma: “Vladislav Delay, fondamentalmente sono io”. Il suo nuovo disco, Vantaa, è un tuffo. Un tuffo nella sua anima, nella sua musica, ma anche nelle acque della sua Finlandia, un gioco di rimandi continui e di successioni mutevoli che collegano in modo inscindibile l' uomo alla natura, descrivono l' uno come parte del tutto, dipingono il mondo interiore dell' artista per riflettere l' ambiente esteriore in cui vive fino a perderne i contorni.
Già come fece un grande compositore con un passato da batterista batterista come Robert Wyatt nell' incipit di Sea Song, Delay utilizza già dalla seconda traccia “Henki” dei sospiri come stratagemma per portare con l' immaginazione l' ascoltatore in riva al mare, ma a differenza dell' ex Soft Machine non li usa per intessere la sezione ritmica ma li pone sullo sfondo. Il disco procede rassicurante nel suo stile ambient ribaltandone la prospettiva: da musica che si attaglia ad un certo ambiente ed è sempre diversa proprio perché ridondantemente sempre uguale, a composizioni che descrivono paesaggi e stati d' animo. Non è la prima volta che Delay si cimenta in viaggi interiori e flussi di coscienza, lo aveva già fatto nel suo capolavoro “Anima”, disco composto da una sola traccia di un' ora, Ulisse della musica elettronica. Stavolta cambia la prospettiva, è come se mondo interiore e mondo esteriore si fondessero in un liquido, rendendo la metafora del mare, che percorre tutto il disco, ancora più efficace.
Ma la visione panteistica fino a questo punto dominante viene interrotta bruscamente nel pezzo “Lauma”, vero apice dell' album, in cui materia e non materia si scontrano una progressione devastante e drammatica, dove le tensioni noise prendono pian piano il sopravvento sull' incalzare continuo del beat, deflagrando nell'ultimo minuto.
A questo punto del disco le tensioni rumoristiche diventano protagoniste, turbano l' equilibrio della composizione, rendono plastica e viva la struttura armonica.
Un tuffo, si diceva, con cui si sprofonda nel mondo di Sasu Ripatti e se ne riemerge placidamente scossi.

Voto: 7,5


Fabrizio Romano

Potete asoltare l' album in streaming qui

lunedì 7 novembre 2011

Lulu: Metallica a lezione da Lou Reed sceneggiatore.

                                                                             




Alla notizia che Lou Reed era pronto a fare uscire il suo nuovo album scritto e suonato i Metallica ho pensato: "perfetto, ci siamo giocati anche lui". Si perché l' idea che oramai la vena creativa di Lou,  alla soglia dei settanta anni, si fosse esaurita è passata per la mente di tutti e che il coinvolgimento di una band finita come i Metallica fosse un' operazione pubblicitaria fine a sé stessa lo si dava anche per scontato. Ascoltando i primi quindici secondi di ogni traccia usciti in anteprima in streaming il palmo della mia mano raggiungeva velocemente la mia faccia in un misto tra incredulità e compassione per quella che mi appariva come la tamarrata dell' anno, roba da fare imbarazzare anche quegli aitanti giovani che ballalano promiscuamente su MTV (beati loro).
Ecco, la lezione numero uno che impartisce questo disco è: mai sottovalutare Lou Reed.
La lezione numero due di questo disco invece è: ti aspetti un disco di Lou Reed e Metallica? Illuso! Ti ritrovi l' opera teatrale di Reed più compiuta dai tempi di Berlin (sarà un caso se la storia inizia sotto la porta di Brandeburgo?) e i Metallica che suonano sullo sfondo.
Insomma, questo disco bisogna prenderlo per quello che è: un' opera in cui Lou Reed si cimenta nella sceneggiatura, più che nella composizione, in cui la maschera ti invita a prendere posto nel loggione e assistere allo show.
Gli indizi per arrivare alla conclusione che questo disco ha a che fare più col teatro che con la musica sono troppi per non essere colti:
  • L' idea originale nasce dalla trasposizione teatrale di Robert Wilson del personaggio di Lulu, femme fatale concepita dalla mente di Frank Wedekind
  • Reed si avvicina al progetto concependo una colonna sonora da portare a teatro, ma poi cambia idea e pensa ad un disco
  • Lou non canta (quel poco cantato è affidato a Hetfield), recita e usa lo spokenword in modo sistematico come, a memoria, non aveva mai fatto.
  • L' impressione è quella di un' opera recitata dall' ex Velevet Underground con i Metallica alla colonna sonora.
  • La lunga durata del disco, quasi pari a quello di una piéce.
  • Siamo oltre il concept; è una storia che ha un' introduzione, uno svolgimento e una fine, una narrazione compiuta e completa come capita in pochi dischi di cantautorato, figurarsi in altri.
Se prendiamo per buona l' introduzione la musica rimane sullo sfondo e non fà altro che aumentare il pathos e l' atmosfera drammaticamente dark legata al racconto, senza grandi pretese ulteriori. Và detto che la ragione per cui provo antipatia per gran parte del metal è che la bravura degli interpreti rimane fine a sé stessa. Proprio quello che non capita in questo disco.
I testi di Reed fanno l' opera e la qualità della scrittura è impressionante per violenta raffinatezza e per disturbata eleganza. Lulu pian pian piano si trasforma in Lou, che racconta con sincerità il suo rapporto con i suoi affetti, da sempre turbato, ambiguo, oscuro, feroce. 
Se é vero che ogni opera di uno scrittore è un pò autobiografica, forse, questa, per Reed scrittore, lo è un filo più delle altre "Desidero così tanto farti del male. Sposami. Ti voglio come moglie." (frustration) Illusione e disillusione, soddisfazioni e fatica, affidamenti e tradimenti di un Signore che ha sempre voluto scrivere e raccontare delle passioni e delle vite degli altri come nessun altro sà fare, e che alla fine si arrende a ciò che non sà capire: "Lascia che la luce delle stelle coli giù Come una candela in un beccuccio Lascia che lo stoppino si consumi e cada Lascia che la luce stellare s’irradi Perché mi tradisci? Perché mi  tradisco? Perché mi tradisci? Perché mi disprezzo?Perché mando a cagare i miei sogni? È perché è così che va".(Cheat on Me"


Fabrizio Romano

sabato 17 settembre 2011

Vegetable G - L'Almanacco Terrestre

La copertina del nuovo lp dei Vegetable G, prodotto da Ala Bianca e distribuito da Warner

Alzi la mano chi non pensa al celeberrimo gioco di società quando gli si parla di Monopoli. Qui, però, non vogliamo parlare del passatempo per giovani capitalisti, bensì di una cittadina posta sull’Adriatico, in provincia di Bari, che porta lo stesso nome. È proprio a Monopoli che, nel 2002, Giorgio Spada e Luciano D’Arienzo, cui in momenti diversi si aggiungeranno Maurizio Indolfi e Michele Stama, formano i Vegetable G. Dopo quattro dischi in inglese, arriva la produzione importante, Ala Bianca, e il dietrofront linguistico: lo scorso maggio la band pubblica l’ep La Filastrocca dei Nove Pianeti, preambolo a L’Almanacco Terrestre. Mi trovo a riflettere proprio sulla parola almanacco la quale mi rimanda, oltre che agli studi astronomici, agli annuari calcistici pubblicati ad ogni fine campionato con statistiche e classifiche individuali: ecco, questo album rappresenta una summa, un compendio dei generi musicali che, nel corso della loro carriera, Giorgio Spada e i Vegetable G hanno attraversato e indagato. Dentro questo lavoro vi è la storia passata, presente e futura del gruppo pugliese. Le sonorità e le melodie si pongono in continuità con la produzione precedente e raggiungono, nel presente, una maturazione completa, grazie ad arrangiamenti molto eleganti e ricercati cui si unisce il contributo dei fiati di Enrico Gabrielli. Le liriche, ora in italiano, segnano invece un’inversione di rotta, marcando il solco, il percorso da seguire negli anni a venire.

La struttura del disco, un concept album di 10 tracce per un totale di 33 minuti che per via del tema e di alcuni tratti musicali ricorda The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars di David Bowie, riflette un’impostazione lineare ed un’evoluzione stilistica ormai proprie di una formazione affiatata e ben assortita. Tra le canzoni che compongono l’opera vegetale spicca Il cielo di Van Gogh, sorta di manifesto che rappresenta una vera e propria dichiarazione di intenti: l’invito ad accendere il razzo nucleare, ossia ad entrare nel mondo dei Vegetable G, è rivolto sia ad un eventuale partner che all’ascoltatore trascinato tra mondi onirici e visionari. Forte è il richiamo ad un certo tipo di produzione battiatiana, su tutti Mondi Lontanissimi, ma vi è, all’interno del disco, qualche eco diffuso della produzione cantautoriale italiana degli ultimi anni. Penso in particolare a La Favola di Adamo ed Eva di Max Gazzè e a Da A ad A di Morgan, artisti mainstream che arrivano a quel grande pubblico cui i Vegetali per capacità, ed ora anche per produzione e distribuzione, possono legittimamente puntare.   
 
[Andrea Polidoro] 

Potete ascoltare l'album in streaming integrale cliccando qui.

mercoledì 14 settembre 2011

Mariposa @ Milano Film Festival 11. 9. 2011





Mi trovo, prima volta nella vita, a Milano. Giorni caldi, umidi, soleggiati: l’ideale per stare in città e avvertire pesantemente la mancanza del mare nostrum. Nonostante il condizionatore ed il campionato, è domenica pomeriggio quindi si va in centro, al Milano Film Festival. Ci sono i Mariposa, non si può di certo mancare. L’orario è quello milanese per eccellenza, l’ora dell’aperitivo. L’ambiente è caloroso e accogliente: il Sagrato, diciamo il cortile, del Teatro Strehler, quartiere Brera, accanto al Castello Sforzesco e a Parco Sempione, a pochi passi dalla sede del Corriere e dalla Pinacoteca, nel cuore pulsante della Città. 

Se il tramonto meneghino illumina e impreziosisce il proscenio, i costumi e le capigliature dei Mariposa rendono tutto colorato e fiabesco. Con grande stile, per dirla a modo loro. Il settetto di musica componibile è al gran completo, volti distesi, tranquilli e sorridenti come sempre. Pterodattili, traccia di apertura del loro ultimo lavoro in studio, Semmai Semiplay, accoglie il numerosissimo pubblico del festival. Pubblico vasto, sì, ma disciplinato, il quale sprofonda nel silenzio quando le tastiere di Gianluca Giusti ed il campionatore di Michele Orvieti prendono vita. Per Alessandro Fiori giunge il momento di togliere le scarpe e dare mostra delle proprie, indiscutibili, capacità canore. Dopo la corsetta del leader carismatico sull’aiuola attigua al palco durante un secondo breve intervallo strumentale che chiude Pterodattili, si prosegue con Santa Gina, Chambre e Tre Mosse. La scelta è quella di seguire, in scaletta, la tracklist dell’album: scelta azzeccatissima poiché le canzoni si susseguono in maniera eccellente e si incastrano alla perfezione una dopo l’altra, perle di un’unica, incantevole, collana. Enrico Gabrielli va altalenandosi magistralmente tra sax, flauto e xilofono, mentre Enzo Cimino alla batteria è un mix di brio ed esplosività. Dopo l’esecuzione quasi integrale di Semmai Semiplay, l’ensemble anima, corpo e mente del riuscitissimo esperimento discografico Trovarobato attinge anche al penultimo omonimo lavoro con Specchio, Zucca e Zia Vienna.

L’ironia e il cabaret non mancano di certo in questa meravigliosa esibizione: nelle battute finali, il bravissimo Valerio Canè offre una esilarante imitazione di Manuel Agnelli che, sul sedile posteriore di un auto, canta Per colpa di chi di Zucchero Fornaciari. Come nella migliore tradizione Mariposa, ci si congeda con la teatrale Tutta Roba Marca con annessa discesa dal palco per il coretto di commiato.

Nella città di Giorgio Gaber, padre emerito del teatro canzone, i Mariposa danno nuovamente dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno, della loro immensa grandezza. Il cantautorato sperimentale della band, legato indiscutibilmente alla forma canzone nostrana, rappresenta una eccezionale anomalia tutta italiana, capace di divertirsi, far divertire e rinnovarsi. Ciò che più colpisce è l’incredibile armonia e concordia che regna sul palco: di eccessivi protagonismi e di irrefrenabili egotismi non vi è traccia alcuna, ciascuno apporta con impegno ed accuratezza il proprio contributo. I Mariposa sono merce rara, sono una band che dovrebbe suonare in giro per le scuole per dare l’esempio a chiunque si voglia avvicinare alla musica, lontano dalla barbarie mediatica.

Mentre rifletto sulle possibilità pedagogiche del progetto nato nella “mia” Bologna dodici anni orsono, vado via felice e soddisfatto, sussurrando evviva, evviva i Mariposa.

[Andrea Polidoro]

mercoledì 27 luglio 2011

Fucked Up - David comes to life







Dice che il rock è morto. E' stato detto tante di quelle volte e da esponenti tanto autorevoli che sembra un assunto difficile da contrastare. E allora in questo 2011 capita di parlare sempre più spesso di world music elettronica, techno, e ovviamente di dubstep.
Poi, verso giugno, esce un disco dei Fucked Up, ostinati nel perseguire la strada rockettara, di quella tosta e distorta dell hardcore, del punk. Ed ecco che il rock torna in tutta la sua maestà dal Canada a strizzare l' occhio all' essenza più pura di questo stile, a quella degli anni '70 e '60, a ricercare un progetto che sembrava ormai svanito, smantellato, obsoleto: l' opera rock.
Chiamatelo anche concept, se volete, ma quella che viene descritta in quest' opera magna di 78 minuti (doppio disco) è una vera e propria storia, quella di David, operaio in una fabbrica di lampadine che si innamora, che deve affrontare la morte della ragazza da lui amata ed i sospetti di chi indaga. Attraverso una lunga serie di peripezie David torna alla vita, alla sua essenza, alla ricerca dell' amore.
Il cantato di Daniel Abraham sfiora e spesso tocca il growl, tecnica utilizzata soprattutto nel death-metal, ma ne svuota completamente il senso funereo, macabro, per dare al canto un' impronta ruvida, reale, arrabbiata che al contempo sprizza gioia di vivere e amore per i personaggi del racconto ad ogni nota. E' un canto che viene dal profondo e ricerca la profonda sensibilità di chi ascolta.
Il tappeto ritmico che intessono basso e chitarra è fittissimo e vibrante quasi mosso da un timore di horror vacui, di non partecipare in ogni singolo momento alla struttura del pezzo. Le chitarre sono sferzanti e fanno la differenza nell' economia del disco perché a loro è affidato il compito di uscire da un discorso monotono, pur mantenendo l' uniformità stilistica che caratterizza l' album.
Quello che davvero impressiona è la sequenza di belle canzoni una dietro l' altra, senza momenti di calo, senza pezzi c.d. “riempitivi”, senza che l' attenzione venga meno; da Queen of Hearts a The other shoe fino a Truth I Know e One more night. Del resto i punti di riferimento, come già detto sono proprio dischi doppi di grande spessore: Zen Arcade degli Husker Du, Quadrophenia (ma anche Tommy) degli Who e, per certi versi The River di Bruce Springsteen, il tutto miscelato con la forza anarchica e dirompente del punk dei Germs.
Quello che si ascolta è un disco espressionisticamente mirato a far aprire le riserve e le indie-snobberie dell' ascoltatore, a ritrovare la voglia di raccontare storie; storie di cambiamento, di ritrovamento di punti di riferimento che sembravano perduti, di amore e di morte, di ritorno a una vita nuova.
Allora è l' ennesima dimostrazione che il rock non è morto, che c' è ancora una speranza, che può tornare padrone della scena? No. Semmai è una ulteriore dimostrazione che il rock è finito, ma che ha lasciato un lascito che ha segnato indelebilmente la storia della musica in modo profondo, fin nell' essenza. Il rock è sempre stato un modo di fare le cose, ecco, si possono e si devono cercare linguaggi nuovi ed alternativi, ma da questo modo di fare le cose non si torna più indietro, non si prescinde più.

Voto: 8,5


Fabrizio Romano

martedì 19 luglio 2011

Love the Unicorn - Back to 98

La copertina dell'ep dei Love the Unicorn
In questo mondo di Cani. Negli ultimi tempi, Roma ha catalizzato su di sé l’attenzione di addetti ai lavori, riviste, blog, nonne e zie per via di una fantomatica band ultrapop. Personalmente, c’è qualcosa che trovo gradevole in quel progetto, ma è poca roba. Per fortuna, nella capitale non c’è soltanto l’unità cinofila ma c’è anche qualcosa che vive e si muove più nelle segrete, nei sotterranei, di un patrimonio umano e artistico smisurato. Nella città eterna ci sono anche cinque giovanissimi ragazzi che hanno da poco registrato e pubblicato, in tutta autonomia, il loro primo easy play dal titolo Back to 98, ascoltabile qui. Nell’ambiente capitolino i Love the Unicorn, questo il nome della band, si son fatti conoscere con un buon numero di live, molti dei quali di spalla a gruppi già affermati e seguiti. Per quella che è la mia storia personale, non posso non pensare a questo animale mitologico in chiave anime: nel cartone che più amavo da piccino, i Cavalieri dello Zodiaco, Asher, dell’Unicorno appunto, era uno di quei personaggi anonimi di cui ci si ricorda soltanto per l’incondizionata fedeltà a Lady Isabel e per i frequenti litigi con Pegasus.

Mentre cerco di togliermi dalla testa le Dodici Case e i Cavalieri d’oro, inizio l’ascolto dell’ep, composto di tre tracce. La prima canzone, True Love Kills, mi aiuta molto a raggiungere questo risultato. Con una delicatissima atmosfera sospesa tra il pop e la psichedelia, i cinque giovincelli romani riescono a creare in me quella trance melodica di cui ho bisogno al mattino, appena sveglio. La voce ed il synth di Marco, entrambi utilizzati in maniera corretta ed elegante, senza sbavature e barocchismi, recitano la parte principale all’interno di una composizione ben assortita e studiata. Subito dopo, Back to 98 segna una decisa virata verso quel divertissement tanto caro alla stagione estiva. Qui è la batteria di Francesco a dettare i tempi, ma sono i cambi di direzione repentini delle due chitarre a donare all’insieme quella freschezza necessaria per portarmi a considerarla un’ottima colonna sonora per il caldo di questi giorni. Le influenze degli anni Novanta cui, da titolo, si vorrebbe far ritorno sono evidenti ma non mancano riferimenti più recenti e attuali: innovare prendendo spunto da quanto di buono è stato già fatto finora è un punto a favore di ragazzi poco più che ventenni. La terza, conclusiva, traccia richiama, invece, sia nella forma che nella sostanza i suoni e le melodie degli anni Ottanta: This Charming Girl ha molto più a che vedere con la celebre canzone degli Smiths che con un melodramma sudcoreano del 2005. Quello che è il mio pezzo preferito di questo breve lavoro in studio è caratterizzato da una sezione ritmica intensa e gioviale che non disdegna una chiusura in chiave New Order.

Tre pezzi non bastano a tracciare la carta d’identità di un gruppo così giovane e, sicuramente, in costante divenire. Già poco avvezzo alle classificazioni, non farò un’eccezione per questi ragazzi che sono riusciti a farsi apprezzare attingendo dal surf, dalla new wave, dal pop, dall’ambient. Un ep è, per definizione, un lavoro incompiuto che serve a far conoscere le proprie intenzioni, per me in questo caso molto buone. Talento e creatività non sembrano mancare, stiamo a vedere che succede.

[Andrea Polidoro] 

sabato 9 luglio 2011

venerdì 8 luglio 2011

mercoledì 6 luglio 2011

Karibean - Love, Tears & Spiritual Blessing

La copertina dell'ep dei Karibean, pubblicato lo scorso 5 giugno.

La mia giornata di oggi non era assolutamente cominciata nel migliore dei modi. Svegliato alle 9 e 30 dal lavorio degli operai sotto la mia finestra, memore di un lungo confronto con i miei colleghi avuto pochissime ore prima, senza nessuno che mi preparasse il caffè a casa. Ero pronto alla mia razione di, come si suol dire, sangue amaro giornaliero quando una innocua scoperta rischiara la luce di una giornata che si annunciava a tinte foschissime. Mi imbatto in una canzone dal titolo molto simbolico ed evocativo che mi prende, mi scuote, mi colpisce dritto alla testa. Conquistato da un’estasi melodica, inizio ad indagare su quelli che non stento a definire i miei Salvatori. Si tratta dei Karibean, trio marchigiano che ha da poco pubblicato un ep, registrato tra gennaio ed aprile nello studio del Loop club di Osimo, dal titolo Love, Tears & Spiritual Blessing. E’ proprio così: la musica di Enrico Carletti, Corrado Verdolini e Luca Gobbi assume nella mia fu triste mattinata i connotati di una benedizione spirituale. Passo allora all’ascolto dell’easy play, che potete scaricare gratuitamente da qui. La traccia di apertura, Xmas vibration, è in pieno stile Beach Boys, e questi ragazzi non sembrano assolutamente volerlo nascondere. La chitarra e la batteria danno il tempo all’inizio della stagione torrida, disegnando onde, surfisti, camicie a fiori e pagliette. We need the sun irrompe decisa a spazzare metaforicamente via le nubi dalla testa di qualsivoglia ascoltatore: la si vorrebbe ascoltare così tante volte che sembra essere catapultati indietro negli anni, ai tempi delle hit estive preadolescenziali. Che questa canzone abbia i connotati del successo di massa – ma di elevata qualità, sia chiaro – se ne sono accorti anche al Guardian, ma non facciamo caso al solito silenzio tutto italiano. Le tracce successive costruiscono un ponte con il 1986, anno di pubblicazione della celeberrima musicassetta C86 da parte del settimanale britannico NME: vi sono notevoli richiami a quelle atmosfere pop, a quel mood. Gregorian spring, con la sua struttura melodica perfetta ed i coretti da falò di ferragosto, conferma questa tendenza, così come le ultime due tracce che chiudono 15 minuti di inaudita freschezza. Questi ragazzi dell’East Coast italica riescono, con cinque canzoni d’impatto notevolissimo, a ricordarci che qualcosa di buono si muove sottoterra, che il vento può cambiare davvero dappertutto, per voler usare un’espressione molto in voga. Con il mix di pop e surf rock prodotto dai Karibean, nome che prende spunto dalle magliette estive della Benetton 012, l’estate 2011 apre ufficialmente i battenti. Ed io, adesso, ho proprio voglia di un Mojito.

[Andrea Polidoro]

Intervista: Eveline





Un gruppo di spessore, con una fama consolidata alle spalle, è in giro per la penisola italica a presentare l’ultimo lavoro in studio. Parliamo degli Eveline, band bolognese d’adozione che ha da poco pubblicato il proprio terzo album, αω. Tra le tappe del loro tour ce n’è anche una al Mary Rock – con il quale, ovviamente, intratteniamo un rapporto diretto e privilegiato – il 2 luglio, in un ventilato sabato sera nel Sudpontino. Che siano ragazzi molto cordiali e disponibili, oltre che musicisti straordinari, ce ne accorgiamo subito, molto prima del sound check. Accettano con entusiasmo di suonare un pezzo per noi ed inoltre ci concedono una lunga chiacchierata che va a toccare le tematiche più varie e disparate, nonostante si sarebbe dovuto trattare di una semplice intervista. Un confronto molto intenso ed interessante di cui vi riportiamo l’ossatura centrale.
Ragazzi, innanzitutto benvenuti al Mary Rock. Partiamo da αω, vostro terzo lp prodotto da un, chiamiamolo, collettivo di etichette. Dove è nato, dove è stato per così dire concepito e registrato?
L’album è stato per gran parte composto in Sardegna, in un casolare in provincia di Oristano, durante l’estate del 2010. Dopo i provini svolti tra Sardegna e Bologna, ci siamo spostati in provincia di Reggio Emilia, nello studio della Igloo Audio Factory di Andrea Sologni ed Enrico Baraldi, un casolare vicino Correggio. La registrazione è andata benone, siamo riusciti a ricreare la stessa situazione di sintonia ed ispirazione vissuta in Sardegna. Gli arrangiamenti dei pezzi che sono andati a comporre il disco sono stati composti, come è nostra abitudine, collettivamente; la parte vocale è curata, invece, da Matteo.
Ascoltando il disco, la nostra sensazione è stata quella di essere trasportati in un’atmosfera di sospensione, in una dimensione onirica con forti richiami alla psichedelica. Questa è, chiamiamola, l’impressione data. Quale, invece, l’impressione da voi ricercata, ossia cosa volevate suscitare nell’ascoltatore?
Allora, una premessa è doverosa: l’ascoltatore è stato preso in considerazione soltanto nell’ultima parte della registrazione, non in Sardegna né a Bologna. In studio siamo stati attenti a non appesantire gli arrangiamenti per rendere il tutto molto armonioso, cercando di creare un concept album. Come avrete notato, le sonorità all’interno del disco sono molto varie nonostante l’impianto segua un percorso ben chiaro e preciso.
Non vogliamo chiedervi le influenze, sarebbe una domanda forse anche fastidiosa, ma ci piacerebbe se ognuno di voi ci dicesse un disco in particolare che vi viene in mente che vi ha in qualche modo ispirato ai fini di questo lavoro.
Nell’album si scorgono le influenze del post-rock, la presenza massiva delle tastiere richiama un certo modo di fare musica, ma con forti tonalità noise. Ecco, che rapporto vedete, e vivete in prima persona ovviamente, tra la musica ed il rumore propriamente inteso?
Per come la vediamo, il rumore diventa parte del pezzo: è qualcosa da suonare, l’elemento portante. Ad esempio, la traccia conclusiva del disco, Lunar 8, è composta da linee melodiche di tastiera unite a disturbi che portano il tempo e reggono tutta la struttura del pezzo.
Cosa pensate, in tutta onestà e sincerità, della tradizione e del panorama attuale della musica in Italia?
Innanzitutto, noi non siamo legati né interessati a quella forma canzone che ha da tanti anni contraddistinto il modo di fare musica in Italia. Attualmente, ciò che ci rincresce è che non vediamo moltissima ricerca: viene dato molto spazio a dei progetti quadrati e standard che non fanno assolutamente ricerca sperimentale. Ovviamente ci sono anche delle belle eccezioni, prima su tutte Cesare Basile: un cantautore, per così dire, classico ma con un grosso lavoro di ricerca e di innovazione alle spalle. C’è da dire che in Italia si vive un problema peculiare: tutta l’attenzione, sia da parte dei media, nei quali mettiamo anche le webzine, che del pubblico, va nella stessa direzione, lasciando poco spazio alla sperimentazione. E’ la grossa differenza con l’Inghilterra, dove si hanno tante scene e si da attenzione a tanta roba.
Un’ultima domanda sulla presa diretta, sulle vostre esibizioni. In che misura e come cambia la vostra attitudine tra studio e live?
Dal vivo riproponiamo degli arrangiamenti leggermente diversi. In questo tour suoniamo tutto l’ultimo album più alcuni pezzi dei primi due dischi cui siamo molto affezionati. In particolare, amiamo chiudere i live con una traccia del primo album, eleven years with Jennifer Hartman, dedicata al chitarrista degli Slint Brian McMahan.
Ragazzi, grazie mille per la piacevolissima chiacchierata. Un grosso in bocca al lupo per stasera e per il prosieguo del tour.
Di nulla, grazie a voi.

[Andrea Polidoro & Fabrizio Romano]
La copertina dell'ultimo album degli Eveline, αω

mercoledì 15 giugno 2011

Intervista: Sandro Joyeux





Sandro Joeux si presta gentilmente a fare due chiacchiere con noi e ci regala anche un pezzo in versione acustica.

Recensione: June 1974 - Suspense







June 1974 è il progetto solista di Federico Romano: musicista, strumentista, poeta, scrittore; artista. Arrivato al suo secondo disco, Suspense, June 1974 cerca una strada espressiva diversa da quella che normalmente si percorre in Italia, di solito molto legata alla forma canzone ed in particolare alla canzone d' autore, e ricorre ad un album con soli due pezzi lunghi: My last fly (16:24) e Suspense (13:29). E' significativo il fatto che un artista che lavora con la parola, la usa frequentemente, vi rinunci totalmente nella sua opera musicale. E' un segno che indica che la Musica trasmette messaggi, fà cultura al pari della parola, senza bisogno di adottarla.
Già dalla lunghezza dei pezzi si intuisce che Suspense vive di richiami al rock progressivo, ma non solo; le sonorità che si mescolano sono anche quelle della musica ambient e dell' elettronica. I riferimenti sono molteplici: Godspeed You! Black Emperor, Ryuichi Sakamoto, ma anche l' elettronica da dancefloor, per dirne una, dei Daft Punk.
Se le intenzioni dell' opera sono più che pregevoli, a parere dello scriba il disco dopo diversi ascolti risulta ben costruito ma piatto, privo di momenti realmente significativi che facciano sobbalzare dalla sedia. L' intento è chiaro e ambizioso, rappresentare la situazione in cui ci troviamo immersi tutti noi ogni giorno, e rappresentarla in musica: la sospensione. Sospensione perché il rock si sgretola, ma fatica ad emergere un nuovo linguaggio; incertezza per chi lavora ma non sa ancora per quanto tempo potrà farlo, ansietà perché la crisi è passata, ma non ha indicato un modello economico nuovo.
My last fly è probabilmente il miglior pezzo dei due: l' entreé è di quelle che coinvolgono subito l' ascoltatore, in un' ottima fusione tra percussioni, elettronica e violino. Purtroppo nel corso dei sedici minuti di cui si compone il pezzo la tensione non è mantenuta alta, ci sono passaggi ripetitivi, l' attenzione è destinata a calare.
La title track vira decisamente verso il genere dell' elettronica. E' certamente il brano in cui si concentra di più la sperimentazione ed al contempo si riversa uno dei fenomeni musicalmente decisivi per la musica moderna, la “culture club”. Per culture club s' intende quel tipo di musica, che nasce e vive nei locali e nelle discoteche come musica da intrattenimento ma che pian piano acquista consapevolezza di sé, creando un vero e proprio circuito artistico parallelo a quello del rock. Anche in questo caso il tentativo di voler riabilitare artisticamente un certo tipo di musica è nobile, ma a parere di chi scrive sarebbe servito uno sforzo compositivo maggiore per arrivare a un maggior coinvolgimento emotivo. La sensazione che, al contrario, restituisce il disco è quella di un certo distacco tra ciò che suona e chi ascolta.

Voto: 5


Per ascoltare l' album basta andare al sito http://www.june1974.com/

mercoledì 1 giugno 2011

Primavera Suond Fest: il nostro live report



Amico di questo blog e dei suoi redattori, Francesco D' Elia, violinista, chitarrista, loopettaro e ascoltatore ha accettato di fare una chiacchierata e di raccontarci del Primavera Sound Festival di Barcellona, ovvero l' evento musicale più importante dell' anno.

mercoledì 18 maggio 2011

In free download il nuovo ep di A Toys Orchestra: intervista a Raffaele Benevento.

Il nuovo ep dei Toys Orchestra si scarica da qui: http://soundcloud.com/a-toys-orchestra/sets/rita-lin-songs/


Midnight Talks è stato uno dei dischi italiani più apprezzati e diffusi del 2010. Il tour, che non ha mai vissuto lunghe interruzioni, è stato un successo strepitoso. Il Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza ha premiato A Toys Orchestra quale miglior band indipendente del 2010. Eppure, probabilmente, i quattro ragazzi di Agropoli, che da quasi due anni vivono a Bologna, non si reputavano ancora pienamente soddisfatti. Forse avevano ancora qualcosa di importante da dire, da far ascoltare. Saranno state queste le ragioni che li hanno spinti a registrare un ep di 6 tracce, Rita Lin Songs, che da oggi, 18 maggio, è in download gratuito per una settimana dal canale SoundCloud della band? Questo breve lavoro, che vede la partecipazione di musicisti di spessore quali Enrico Gabrielli, Andrea Appino degli Zen Circus e Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours, contiene la cover di un pezzo fantastico dei Duran Duran, il remix di Plastic Romance, la versione italiana di Celentano e tre inediti. Proprio nei giorni in cui mi interrogavo sul perché di questa nuova pubblicazione, mi è capitato di incontrare Raffaele Benevento, membro fondatore dei Toys Orchestra, al quale ho chiesto se gli andava di concedermi un’intervista. Raffaele, con una gentilezza ed una disponibilità per nulla ordinarie, si è dichiarato favorevole e ci siamo quindi dati appuntamento per un aperitivo presso il locale con il quale collaboro qui a Bologna, lo Zammù.

Allora, Raffaele, cosa vi ha portato ad incidere Rita Lin Songs? Come spieghi, insomma, la scelta di pubblicare un ep, dal titolo forte, in questo momento della vostra carriera?

Il Ritalin, come sai, è un farmaco che veniva somministrato negli Stati Uniti ai bambini iperattivi: era un gioco di parole che piaceva ad Enzo (Moretto, cantante del gruppo, ndr) e quindi gli abbiamo dato questo titolo. La volontà che sta dietro all’ep è l’esigenza forte che avvertivamo di far ascoltare alcuni pezzi che venivano dalla session di Midnight Talks, infatti di questa possibilità se ne parlò subito. Abbiamo deciso di arricchirlo con una cover di una delle canzoni meno conosciute dei Duran Duran. La scelta è stata sempre di Enzo poiché riusciva a cantarlo con discreta facilità ed inoltre era qualcosa di molto diverso dal nostro modo di fare musica. Non è stato nemmeno troppo difficile, basti pensare che l’abbiamo provato per due giorni e poi l’abbiamo registrato.

E’ passato poco più di un anno dal vostro ultimo disco. In questo periodo non vi siete mai fermati,  siete stati in tournée pressoché permanente. Mi chiedevo, quando avete trovato il tempo per inciderlo?

Guarda, si tratta di materiale che era già quasi tutto pronto ma che non abbiamo mai eseguito dal vivo. Ad esempio, il remix di Plastic Romance era stato fatto già durante le fasi di registrazione dello scorso album e Noir Dance l’avevamo già incisa. Difficilmente scriviamo dei pezzi quando siamo in giro a far concerti: viviamo due momenti distinti e separati, quello della composizione e quello dell’esibizione.

La scelta della copertina, un differente art work dello stesso soggetto di Midnight Talks, vuole rappresentare la continuità con esso, se non addirittura esserne il corollario e quindi, forse, l’epilogo?

Certo, c’è una notevole continuità tra Rita Lin Songs e Midnight Talks ma non chiude nulla. C’è stata una tavola rotonda con i manager ed il booking, che sono anche nostri consiglieri, dove abbiamo concordato di registrare prima un nuovo album e, successivamente, di fare un ep. Il prossimo disco sarà la chiusura di questa nostra fase artistica; l’idea è quella di avere due lavori, per così dire, speculari: con le dovute proporzioni del caso, sarà il nostro Amnesiac.

La versione italiana di Celentano è la vostra prima canzone in italiano. Non so perché, ma la prima volta che l’ho ascoltata, ho pensato subito che fosse il frutto di qualche momento di cazzeggio in sala prove: uno sfizio, un divertissement. Mi allontano molto dalla realtà dei fatti?

E’ andata che la melodia è molto legata alla tradizione folk del nostro paese, e inoltre ha un titolo che va dritto al cuore di tantissimi italiani. Enzo era un pezzo che ci pensava a farne una versione in italiano, ma gli veniva difficile farlo. Poi, piano piano, aiutato anche da Appino, quello che era uno scherzo ha iniziato a prendere forma. Comunque, siamo tutti più affezionati alla versione inglese e, se dovesse ripetersi l’occasione di fare qualcosa in italiano, sarebbe molto più stimolante scrivere una canzone da zero. La voglia di cantare in italiano ci è venuta proprio da questo pezzo, dall’originale in inglese, ma ci piacerebbe magari comporre qualcosa di nuovo, senza essere ingabbiati all’interno di una melodia e di una metrica già costituiti. Inoltre, rappresenterebbe una bella sfida: scrivere canzoni in inglese è più semplice poiché puoi utilizzare anche il nonsense, in italiano questo non è possibile.

Dei tre inediti ve ne è uno, Noir Dance, che è meno legato a quella che potremmo chiamare la tradizione Toys, anzi sembra andare decisamente oltre. Vi si può intravedere una piccola anticipazione del prossimo disco?

Noir Dance è un pezzo che sarà contenuto nel prossimo disco, il quale sarà molto eterogeneo. Ci sarà qualcosa che viene fuori dal calderone di Midnight Talks e qualcosa di nuovo, di diverso. In questo senso, quindi, sì, si tratta di un’anticipazione.

A proposito del prossimo disco, in uscita ad ottobre per Ala Bianca e distribuito dalla Warner, noi di Sono Solo Canzonette pensavamo che, se pubblicherete qualcosa anche nel 2012, vi candiderete a tutti gli effetti ad essere gli omologhi italiani di Xiu Xiu, ovviamente per ciò che riguarda la mole di produzione artistica.

In realtà, noi in passato abbiamo rispettato sempre, senza volerlo, dei tempi fisiologici, infatti abbiamo pubblicato un album ogni tre anni dal 2001 al 2010. Dopo il prossimo disco, ed il tour che ne seguirà, sarà giusto fermarci un po’. Non siamo tipi da far uscire qualcosa, diciamo, così, tanto per farlo: siamo molto esigenti verso noi stessi, dobbiamo essere sempre contenti al 100% del lavoro svolto e vogliamo che la gente che ci segue sia felice.

La vostra è una storia felice: dal natìo Cilento siete giunti in breve tempo a ricoprire un ruolo di primissimo piano nella musica italiana. Secondo te, in che stato versa la musica in Italia?

Credo che l’Italia sia in ottima salute per quel che riguarda la creatività, ma è difficile fare il musicista di livello perché mancano le opportunità. C’è molta passione tra gli addetti ai lavori ma c’è poca gente ai concerti, se togli Vasco che riempie ogni volta stadi interi. La sensazione è che non si ripeterà più il periodo d’oro di Afterhours, Subsonica, Marlene Kuntz e Bluvertigo: quello è stato probabilmente l’ultimo periodo in cui le etichette puntavano sul mondo alternativo, adesso ci sono poche, piccole realtà a farlo. L’Italia è, artisticamente parlando, in grandissima forma ma mancano gli investimenti.

Rita Lin Songs sarà da domani (oggi per chi legge, ndr) in download gratuito dal vostro SoundCloud. E’ un aspetto che mi interessa particolarmente poiché sto curando una tesi sul diritto d’autore e sul file sharing attraverso l’analisi di alcuni casi nazionali. Personalmente vedo una netta separazione anche tra i musicisti del nostro paese: quelli che sono gli artisti mainstream, ad esempio i Marlene Kuntz, che hanno contratti con le major, le quali fanno una battaglia spietata alla diffusione via web dei contenuti delle loro opere, da una parte; dall’altra parte, invece, il panorama, chiamiamolo, alternativo che ha compreso le dinamiche attuali di una società globalizzata ed è più propenso a condividere ciò che crea, che produce. I Toys Orchestra fanno parte di questo gruppo: siete riusciti ad adattarvi, probabilmente in maniera naturale, ai tempi, comprendendo quanto sia fondamentale la presenza sul palco e la necessità di prodotti freschi da sottoporre al pubblico. Qual è la tua opinione personale al riguardo?

L’ep in free download per una settimana ha uno scopo ben preciso: vogliamo comprendere l’impatto che può avere, vogliamo che la gente possa ascoltarlo e quindi ci è sembrato naturale compiere questa scelta. Ci sembrava anche giusto nei confronti dei nostri fan, è quasi un ringraziamento a loro. In un anno abbiamo fatto cinque date a Roma che sono andate tutte benissimo: ecco, vedi, ora vuoi dare qualcosa a chi ti viene ad ascoltare? L’ep l’abbiamo fatto per le persone, per il nostro pubblico. Abbiamo pensato: facciamoglielo ascoltare, non proviamoglielo a vendere. Per quanto riguarda il discorso di “scaricare” materiale dal web, questo ha ovviamente i suoi pro ed i suoi contro: da una parte uno pensa che ci sta andando a perdere, dall’altra più persone possono ascoltarlo. L’unica via per far uscire dalla crisi il mercato discografico è abbassare il prezzo dei dischi. A causa di questo la gente non va nemmeno ai concerti: io e te ci siamo incontrati al concerto dei Mercury Rev (l’11 maggio all’Estragon, trovate sul blog anche il nostro report, ndr) dove c’erano 300 persone. Inoltre, c’è da dire che in passato chi lavorava per l’industria discografica era gente che seguiva un percorso artistico preciso, che lavorava per progetti a lungo termine. Adesso sono tutti manager, magari nel consiglio d’amministrazione della Virgin viene mandato qualcuno che fino al giorno prima lavorava presso la Carisbo o l’Unicredit: non capiscono un cazzo, sono persone che vogliono subito un profitto e che legano la musica soltanto a ragioni economiche. Ritornando al download, è senza dubbio il prezzo dei dischi ad incentivarlo. Perché sui libri c’è l’iva al 4% e sui dischi al 20%? Perché, non è cultura anche questa?

A Toys Orchestra non è un gruppo politicizzato, nonostante la scelta del free download contribuisca, in qualche modo, a collocarvi. Ecco, voi spessissimo, e chi vi conosce personalmente e vi segue anche sui social network come Facebook lo sa bene, fate dichiarazioni politiche a tutti gli effetti, però lo fate individualmente e non come gruppo. E’ una scelta di professionalità o c’è dell’altro?

In parte è una scelta di professionalità poiché rischi di cadere in una polemica continua, in parte a politicizzarsi sono i gruppi che cantano in italiano. Anche il nostro prossimo disco non è assolutamente politicizzato, ma racconterà alcune storie difficili che viviamo quotidianamente nel nostro paese. Noi, ovviamente, seguiamo la politica e siamo interessati ad essa, ma veniamo da una formazione musicale diversa e non ci siamo mai identificati con gruppi come, per fare un paio di esempi, Rage Against the Machine e 99 Posse. In realtà avverto l’esigenza di prendere una posizione netta perché credo sia giusto che chi ci segue conosca qual è il nostro pensiero, quali sono le nostre idee politiche. In Italia si è perso il pudore necessario per vivere in una società e ritengo che noi musicisti dovremmo fare qualcosa tutti assieme, ad esempio un festival, per parlare di politica liberamente ed in maniera trasparente.

Raffaele, la nostra intervista finisce qui. Ti ringrazio nuovamente per la disponibilità e ti faccio i migliori auguri per il futuro.

Di nulla, Andrea, grazie a te.


[Andrea Polidoro]

lunedì 16 maggio 2011

Danger Mouse & Daniele Luppi - Rome


Spaghetti Western all’Amatriciana



Danger Mouse, al secolo Brian Joseph Burton, è un musicista e produttore americano divenuto famoso in duo con il rapper Cee Lo Green con il quale, sotto il nome di Gnarls Barkley, ha pubblicato due dischi di grande successo. A questi ultimi ha collaborato anche Daniele Luppi, un compositore italiano che vive da dieci anni in California, ossia da quando la sua musica giunse, da Roma, alle orecchie di numerosi produttori statunitensi. Ed è proprio in quegli anni che nasce l’idea di registrare un album insieme. Rome, che esce oggi per l’etichetta Parlophone, è il frutto di cinque intensissimi anni di lavoro fianco a fianco. Un disco molto chiacchierato e atteso sin dall’annuncio ufficiale della sua pubblicazione per via sia della partecipazione di due stelle straordinarie della musica internazionale, quali sono Jack White e Norah Jones, che del clima di elevate aspettative create magistralmente da una campagna pubblicitaria e mediatica filtrata attraverso tutto lo scibile telematico. A destare in me la maggiore curiosità è stato senza dubbio questo nostro connazionale di cui fino a pochi mesi fa non avevo mai sentito parlare: la tradizione della composizione italiana, e il rinnovamento attuale dovuto all’ascesa di figure di grandissimo spessore come, ad esempio, Teho Teardo nel panorama mondiale, hanno di certo reso l’attesa per l’ascolto di questo lavoro molto più lunga e tediosa. Ma il tutto è stato ripagato con profumatissimi e armoniosi interessi.

Il disco di Luppi e Danger Mouse vuole essere la colonna sonora della Città eterna, è chiaro sin dalla traccia d’apertura, Theme of Rome manco a dirlo. In parole povere, se si vuole fare un processo alle intenzioni, fatelo subito. A, diciamo così, rappresentare l’Italia non c’è soltanto Daniele Luppi: tutti gli strumenti utilizzati, organo, percussioni e celesta oltre alla sezione ritmica e alle chitarre, vengono suonati da musicisti della nostra Penisola. Jack White arriva alla seconda canzone, The Rose with the Broken Neck, intenso canto solitario e sconsolato molto ben connesso a dei suoni delicati prodotti con pochi essenziali strumenti, senza eccessivi barocchismi. Il turno di Norah Jones, sensazionale a tutto tondo nel suo contributo, è alla quarta traccia, Season’s Trees. Questa esprime perfettamente l’approccio radicalmente nuovo ideato dai due musicisti per raccontare la primavera romana attraverso i suoi alberi di stagione. Non è Lando Fiorini, non sono stornelli di una Roma capoccia, sono sottili e dolci trame che dipingono su un pentagramma Villa Borghese in fiore. L’utilizzo degli intermezzi costituisce una forte scelta in direzione della fluidità, rendendo l’ascolto del disco molto scorrevole; è senz’altro sintomatico di un lavoro molto ben concepito ed elaborato. Questi intermezzi rappresentano il movimento, sono come un tram che attraversa le strade, i quartieri e le stagioni dell’Urbe. Two Against One e Black, messe in rete prima dell’uscita del disco, sono forse le uniche canzoni che potrebbero essere concepite come singoli. E’ un tutt’uno: storie d’amore vissute sul Lungotevere si intrecciano a descrizioni di momenti quotidiani, come Morning Fog e Her Hollow Ways. Roman Blue rappresenta un adattamento in chiave contemporanea di Morricone, i cui abbondanti e generosi semi sono sparsi un po’ dappertutto nei 35 minuti di durata dell’album. L’impostazione deve molto alla produzione morriconiana, ma la principale differenza è data da alcuni elementi che rendono il disco a tratti pop. Effettivamente, Morricone ha inventato questo modo di fare musica quindi è difficile, probabilmente impossibile, discostarsi molto da quel tipo di struttura. Il merito di Luppi e Danger Mouse sta nell’aver cercato di affiancarsi a quel tipo di produzione contribuendo ad un suo rinnovamento. Rinnovamento al quale, non è male ripeterlo, hanno partecipato in maniera del tutto fondamentale Jack White e Norah Jones, i quali rappresentano le uniche voci presenti su Rome.

Non so se questo lavoro riceverà il successo che merita, francamente poco mi importa. Credo possa senza dubbio costituire un momento di svolta sia per questo modo di intendere la musica che per il rinnovato interesse per il nostro Paese che susciterà tra gli addetti ai lavori. Insomma, Quid melius Roma?

[Andrea Polidoro]

P.S. Ecco di seguito il link per ascoltare l’album in streaming: